30 agosto 2012

La Grande Storia: la scuola italiana dall'Unità a oggi



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23 agosto 2012

Eroi forzati

 Chissà quanti tra i profani del calcio conoscono Simone Farina, da ieri ex difensore dell'A.S. Gubbio 1910, squadra che milita nel campionato di calcio di serie B.

Simone Farina ha trent'anni e, pur provenendo dalle squadre giovanili della Roma e dotato di  grande talento calcistico, per scelta personale ed esistenziale ha preferito l'ingaggio con squadre di provincia, prima il Catania e poi il Gubbio, appunto, nel quale ha giocato una stagione nella seconda divisione.
Nel dicembre del 2011 un suo ex compagno delle giovanili, Alessandro Zamperini, gli propone di "truccare" la partita di Coppa Italia Gubbio-Cesena per 200.000 euro, da spartire con altri tre giocatori. La parte che gli sarebbe spettata, 50.000 euro, equivaleva a tutto l'ingaggio annuale con il Gubbio.
Farina rifiuta la combine e denuncia il tentativo di corruzione. Grazie a lui scatta il secondo tempo dell'Operazione Last Bet, più nota come Calcioscommesse. Prandelli lo convoca in Nazionale a titolo onorifico, Blatter lo invita addirittura alla cerimonia di premiazione del Ballon d'Or e lo nomina ambasciatore FIFA per il fair play.
Lui invece, che non ama riflettori e celebrità, dice: “Mi trovo in un momento di grande difficoltà: forse è la sfida più difficile della mia carriera. Non ho mai amato la ribalta. Del resto, pur essendo di Roma, vivo a Gubbio perché preferisco una vita semplice, l’intimità. Ora ho bisogno di silenzio e di essere protetto, tutto ciò che si dice di me non mi interessa. So solo di aver fatto la cosa giusta”
Ieri il Gubbio lo ha "congedato". Simone Farina continuerà la sua limpida carriera sportiva altrove: è stato chiamato dall'Aston Villa per insegnare il fair play ai giocatori della plurititolata celebre squadra di Birmingham.
Ha fatto solo "la cosa giusta", il suo dovere, una cosa normale, quasi ovvia. Eppure il Gubbio non gli ha rinnovato il contratto. Certo, adesso ne ha uno migliore, ma non come giocatore: come dirigente esperto di "fair play", che è poi il gioco corretto, il banale rispetto delle regole di comportamento. I giornali inglesi lo battezzano "Mister Clean". Diventa insomma - suo malgrado - un eroe. Ma è un eroe forzato, ed è preoccupante che chi fa solo il suo dovere di cittadino venga subito classificato come "eroe". Questo significa che l'etica pubblica ha toccato livelli preoccupanti: già fare il proprio dovere implica l'eroismo del combattente che sfida la morte. Non a caso Farina, appena scoppiato il caso, disse di aver bisogno di essere protetto, neanche fosse un pentito della 'ndrangheta. Ma in Italia oggi il "fare la cosa giusta" è diventato proprio questo: un atto di eroismo da segnalare agli onori delle cronache, da mettere sotto i riflettori, anche se chi ci finisce non ne aveva alcuna intenzione. In tal modo si innesca un meccanismo perverso: si addita subito con soddisfazione chi denuncia e segnala il malaffare come un arrivista in cerca di fama e pubblicità, come è capitato a quello che è diventato il più famoso di tutti i parresiasti (da parrhesia, il dovere morale di dire la verità), Roberto Saviano. Dà fastidio, ha detto Saviano, il fatto stesso di dirla questa verità e quindi di "esporsi", perché "chi si espone dimostra che si può essere diversi, che si può scrivere senza compromesso, che si può vivere senza dover sempre mediare sulle cose importanti - e questa cosa mette in difficoltà, perché è come se facessi sentire sporchi tutti gli altri".
Come forse pochi sanno don Luigi Ciotti da anni gira con la scorta: un sacerdote che aiuta i poveri e i deboli, che combatte le mafie (come dovrebbe fare chiunque) vive scortato dai poliziotti. E questo non scandalizza più nessuno: siamo più vicini ai livelli di legalità del Messico e della Colombia che a quelli europei.
Ha scritto Massimo Gramellini: "Eppure c’è qualcosa di stonato. Non in Farina, che sembra anzi il più imbarazzato di tutti. Ma in coloro che lo esaltano come un essere sovrumano, con ciò ammettendo implicitamente che i comportamenti onesti non rappresentano più la normalità, ma l’eccezione. Di questo passo cominceremo a premiare il politico che non ruba, lo sportivo che non si dopa, l’impiegato che non si mette in mutua per andare a fare la spesa, il cassiere del bar che strimpella sinfonie di scontrini, l’automobilista che si arresta davanti alle strisce, il genitore che dà ragione all’insegnante invece che al pargolo, il banchiere che presta soldi a un giovane promettente invece che a un altro banchiere".

19 agosto 2012

Avere undici anni. In Bangladesh

Che cos'è la vita di un'adolescente? Per qualche famiglia povera del Bangladesh è una risorsa lavorativa. "Fanciulle di undici-dodici anni vittime di stupri quotidiani. Ragazzine che ogni giorno si accoppiano con cinque-sei uomini diversi per qualche soldo da portare a casa, a sostegno del magro bilancio familiare" scrive oggi Ettore Mo del Corriere in un reportage da Faridpur. Il Bangladesh ha 156 milioni di abitanti, con una densità spaventosa (più di 1000 abitanti per kmq: è metà dell'Italia e ha il triplo degli abitanti) e agli ultimi posti per sviluppo umano (146°, l'ultimo è il Congo, 187°).
In questa situazione forse qualcuno - purtroppo - non si stupirà né si rattristerà per questo reportage che racconta come la più grande industria di questo povero paese sia la prostituzione, e per questo video che racconta l'uso delle cow pills (l'Oradexon, cioè uno steroide) da parte di queste ragazzine per sembrare più grandi e formose. E non si rattristerà né tanto meno si indignerà perché forse saprà che "fornitrici della manodopera locale sono per lo più le famiglie dei contadini ridotti in miseria che vendono le figlie per soli 20 mila taka (circa 245 dollari)". Non si chiederà che cosa ha ridotto alla miseria e quindi alla disperazione quei contadini, che cosa li sta rovinando a questo punto. Forse penserà che in quei posti le donne non sono rispettate e che è un problema di cultura, come nel caso della ragazzina macedone tredicenne venduta per 3.000 euro dalla madre (caso accaduto a Marghera).
Sì, forse è un problema di cultura. Ignoriamo perché accade tutto questo perché stiamo meglio così.