Da La malattia dell´Occidente di Marco Panara, pubblicato da Laterza (2010).
Mettere insieme declino del valore del lavoro e peggioramento della qualità della democrazia non è una forzatura. Perché c´è un rapporto diretto tra lavoro e democrazia, un rapporto storico e biunivoco talmente forte che ne rende paralleli i destini.
La democrazia ateniese era fatta di uomini liberi e di schiavi, ove la democrazia era appannaggio dei primi e il lavoro era riservato ai secondi. La democrazia moderna è invece il frutto di un lunghissimo processo di liberazione del lavoro. Per molti secoli l´esperienza ateniese è stata cancellata, non solo nella realtà politica ma anche nel progetto, semplicemente non considerata tra le opzioni non solo possibili ma neanche auspicabili. A tirare fuori quel modello dalla sua cristallizzata classicità è stato il lentissimo e intermittente itinerario attraverso il quale il lavoro ha sciolto le sue catene. Un millennio e mezzo dopo Atene, sono stati nelle città gli artigiani e i mercanti, a volte diventati anche banchieri, a conquistarsi uno spazio economico e, a partire in Italia dai Comuni, anche politico. Una democrazia di pochi, corporativa, più vicina a quella di Atene nel suo elitarismo che a quella moderna, ma con la differenza rispetto all´età di Pericle che la chiave della conquista era stata il lavoro, la bottega, il commercio (mentre il lavoro agricolo rimaneva servile).
Il lavoro apre quindi un primo spazio, una prima crepa nell´assolutismo. Attraverso di esso emerge una nuova classe che non è figlia della guerra né della proprietà terriera, che ha una sua autonomia economica, un suo dinamismo e che comincia a crearsi un suo spazio politico: in certi luoghi, in certi periodi, non dappertutto e tutt´altro che stabilmente, ma è il primo passaggio con il quale il lavoro apre uno spazio di partecipazione politica. Passeranno altri secoli di assolutismi, ma quel seme borghese lentamente germinerà e farà le sue rivoluzioni (…)
È la perdita di valore del lavoro, è la nuova povertà, quella che avanza nei paesi industrializzati, due fattori collegati strettamente tra di loro che stanno lacerando quel rapporto fondamentale per la democrazia che è il legame tra il lavoro e i diritti. La precarizzazione del lavoro e il suo impoverimento contengono in sé la minaccia, e spesso la prospettiva o la realtà della povertà, la quale minaccia rende diffusa l´accettazione di lavoro senza diritti. La necessità, o la paura della povertà, spinge a barattare un po´ di reddito con la rinuncia ai diritti collegati al lavoro e questa rinuncia automaticamente ci riporta indietro nel tempo, a un´epoca predemocratica, quando il lavoro era solo e semplicemente sudore in cambio di (poco) denaro. La conclusione alla quale arriva Nadia Urbinati è che «l´associazione del lavoro al diritto non può essere considerata come un optional del quale si può fare a meno, ma è a tutti gli effetti un fattore di stabilità democratica».
La povertà, la paura della povertà, la separazione del lavoro dai diritti, il ritorno ad una concezione del lavoro bruta e legata alla sola sopravvivenza minacciano la democrazia. Ma non è questa l´unica minaccia. Ce n´è un´altra a questa specularmente collegata per affrontare la quale useremo la chiave proposta da un altro studioso, un economista politico questa volta, Michele Salvati.
Nel suo libro Capitalismo, mercato e democrazia (Il Mulino 2009), Salvati analizza il rapporto tra democrazia e capitalismo e postula che senza capitalismo, ovvero senza proprietà e mercato, la democrazia non ci può essere, e che però il capitalismo contrasta con la democrazia. La sua conclusione è che una buona democrazia è in grado di tenere a bada le tendenze peggiori del capitalismo. E il punto è proprio questo: perché una democrazia sia ‘buona´, e sia quindi in grado di contenere le forze che tenderebbero naturalmente a conculcarla, bisogna che ci siano interessi diffusi in grado di bilanciare quelli forti.
(…) I valori e le tendenze che si contrappongono nella dinamica di una società democratica sono quella egualitaria e quella elitaria o oligarchica, e il braccio di ferro avviene tra gli interessi – o i poteri – forti (oligarchici) e quelli diffusi (egualitari). Posto che a dare forza agli interessi forti è l´efficienza (fino ad un certo punto) del capitalismo nel creare ricchezza e benessere, cosa la dà agli interessi – o poteri – diffusi? La risposta è: il lavoro, il valore sociale ed economico del lavoro.
La discussione che ha portato alla formulazione dell´articolo 1 della Costituzione italiana è illuminante. A sollevare la questione dell´inserimento del concetto di lavoro è il cattolico Giorgio La Pira, che il 16 ottobre del 1946 nel corso dei lavori di una sottocommissione dell´Assemblea Costituente propone il seguente articolo: «Il lavoro è il fondamento di tutta la struttura sociale, e la sua partecipazione adeguata negli organismi economici, sociali e politici, è condizione del nuovo carattere democratico» (…).
Democrazia e lavoro si intrecciano quindi e la missione del lavoro, come fondamento della democrazia è darle la forza necessaria per essere ‘buona´, per essere una buona democrazia.