Theodor W. Adorno, il celebre filosofo e sociologo della Scuola di Francoforte, ha affermato che educare affinché Auschwitz non si ripeta è il compito più importante della filosofia e della pedagogia. Auschwitz non è stato semplicemente un campo di sterminio, un luogo di tortura e di orrore dove hanno perso la vita tra un milione e un milione e mezzo di persone.
Auschwitz è stato un "universo concentrazionario": l'esperimento atroce di una società chiusa in se stessa, che assorbe come un buco nero tutto ciò che proviene dall'esterno.
Una fabbrica della morte, dove l'altro, semplicemente perché è "altro", deve essere annientato.
Dove si muore per un sì o per un no. Dove non esiste un perché. Dove le "persone" non esistono nemmeno più, né fra le vittime, né fra i carnefici.
Dove il male è radicale: alla radice stessa di chi in quel luogo opera, agisce, lavora, muore.
Dove nemmeno le domande hanno più un senso.
Ma anche oggi il pregiudizio antisemita che ha condotto ad Auschwitz è presente fra noi. La mentalità indifferente, conformistica, l'aderire a quel che dicono e fanno gli altri, il pregiudizio diffuso verso immigrati, rom, sinti (gli "zingari maledetti" che tutti sembrano detestare), "clandestini", nomadi, omosessuali, è già un pezzo di Auschwitz. Il pregiudizio è una forma di debolezza: si vorrebbe che ci fosse qualcuno "forte" per eliminare i "deboli", quelli che danno fastidio, che non si integrano (così pare), che stanno ai margini, talvolta rubano e "inquinano" la nostra bella società. Fatta ovviamente da persone irreprensibili, moralmente al di sopra di ogni sospetto... Si fa presto a creare la categoria delle "non-persone".
A Firenze due senegalesi sono stati uccisi perché qualcuno in fondo la pensava in questo modo. Gli "altri", i "diversi" andavano e vanno annientati, per purificare la società. Per ricreare un'identità culturale incontaminata.
A Torino è stato dato alle fiamme un campo rom perché una sedicenne ha finto di essere stata stuprata da due nomadi.
Perciò dobbiamo parlare ancora di Auschwitz. Perché non si ripeta, nemmeno in scala minore.
Una fabbrica della morte, dove l'altro, semplicemente perché è "altro", deve essere annientato.
Dove si muore per un sì o per un no. Dove non esiste un perché. Dove le "persone" non esistono nemmeno più, né fra le vittime, né fra i carnefici.
Dove il male è radicale: alla radice stessa di chi in quel luogo opera, agisce, lavora, muore.
Dove nemmeno le domande hanno più un senso.
Ma anche oggi il pregiudizio antisemita che ha condotto ad Auschwitz è presente fra noi. La mentalità indifferente, conformistica, l'aderire a quel che dicono e fanno gli altri, il pregiudizio diffuso verso immigrati, rom, sinti (gli "zingari maledetti" che tutti sembrano detestare), "clandestini", nomadi, omosessuali, è già un pezzo di Auschwitz. Il pregiudizio è una forma di debolezza: si vorrebbe che ci fosse qualcuno "forte" per eliminare i "deboli", quelli che danno fastidio, che non si integrano (così pare), che stanno ai margini, talvolta rubano e "inquinano" la nostra bella società. Fatta ovviamente da persone irreprensibili, moralmente al di sopra di ogni sospetto... Si fa presto a creare la categoria delle "non-persone".
A Firenze due senegalesi sono stati uccisi perché qualcuno in fondo la pensava in questo modo. Gli "altri", i "diversi" andavano e vanno annientati, per purificare la società. Per ricreare un'identità culturale incontaminata.
A Torino è stato dato alle fiamme un campo rom perché una sedicenne ha finto di essere stata stuprata da due nomadi.
Perciò dobbiamo parlare ancora di Auschwitz. Perché non si ripeta, nemmeno in scala minore.