Si torna sempre sulle stesse cose (o, "alla Musil": le stesse cose ritornano). Il recente caso di Sanaa Dafani, la ragazza marocchina diciottenne assassinata dal padre probabilmente perché non accettava la sua convivenza con un ragazzo italiano (ma non è chiaro se non accettasse il fatto della convivenza o il fatto che il convivente fosse un italiano), riporta al centro della riflessione filosofica e sociale la difficile condizione femminile e la questione della violenza di genere. I media hanno già pronta l'analogia con il "caso" di Hina Saleem, la ragazza di origini pakistane assassinata dal clan familiare nel bresciano perché voleva vivere "all'occidentale", contro il parere dei suoi congiunti.
Di questi temi avevo già parlato in Condizioni Umane, avviando anche con i miei studenti di scienze sociali un dibattito a partire da un articolo di Kureishi e dal libro di Susan Moller Okin Diritti delle donne e multiculturalismo, e in particolare sul saggio "Il multiculturalismo fa male alle donne?". La Okin incalza le donne e in particolare i movimenti per i diritti delle donne a porsi questa domanda: chi paga il conto dell'integrazione culturale? E la risposta purtroppo è sempre la stessa: lo pagano le fasce più deboli in ogni settore del mosaico culturale, ovvero i bambini o, come in questo caso, le giovani donne. Questo perché i bambini, in quanto soggetti al processo di socializzazione e le donne, in quanto principali responsabili della riproduzione materiale del gruppo, sono in realtà i veri soggetti forti di ogni comunità. Bambini e donne rappresentano la speranza, il futuro, la possibilità di rigenerazione, ma, al tempo stesso, anche la conservazione e la tradizione. Perciò essi sono rivendicati come "proprietà", quindi spesso con furore dalla comunità di appartenenza, la quale invoca ogni volta parole come identità, tradizione, cultura per giustificare tale esclusiva proprietaria.
Il fatto è che ogni cultura, ogni rivendicazione identitaria, ogni gesto con cui si rivendica l'appartenenza a una comunità è potenzialmente violento e generatore di violenza. Come scrive Francesco Remotti in Contro l'identità "l'identità non inerisce all'essenza di un oggetto; dipende invece dalle nostre decisioni" (Contro l'identità, p. 5). Non solo in una società moderna (come fanno credere i comunitaristi) ma in qualsiasi società noi decidiamo quale identità avere: essa non è un'essenza fissata una volta per tutte. Noi organizziamo la nostra identità, la costruiamo e la decostruiamo, la inventiamo e la reinventiamo, la formiamo e la deformiamo continuamente. Non si tratta di cedere a un facile convenzionalismo (come fanno molti antropologi e anche lo stesso Remotti) o, come si dice oggi spesso a sproposito, a un confortevole relativismo culturale, per cui ciascuno costruisce o decostruisce il proprio sé ritagliandoselo fra circostanze, occasioni, situazioni, opportunità (una sorta di sé poliforme o informe, ovvero "liquido", per usare la terminologia ormai un po' logora di Bauman). Il fatto che non si vuole accettare è che l'identità è un processo, è fondamentalmente relazione all'altro e capacità di riconoscimento. Nessuna cultura, nessuna concezione comunitaria che si chiuda in se stessa potrà mai eliminare questa sorta di "fatto della differenza". E se vuole eliminarlo, l'unico mezzo di cui potrà disporre sarà la violenza, il terrore, l'umiliazione, di cui Sanaa e Hina sono purtroppo solo i casi più eclatanti, perché donne, perché giovani, perché "integrate", dunque vittime predestinate di quell'ossessione identitaria e di quell'ideologia rabbiosa del possesso esclusivo alla quale non è estranea nessuna "tradizione". Lo sforzo che bisogna fare per evitare il ripetersi di casi come questi è spezzare quell'ossessione e quell'ideologia, non solo con gli strumenti repressivi del diritto, ma anche con il dialogo, il confronto, la ricostituzione di un tessuto di norme e di valori. Affinché un padre (o un marito) non debba più sentirsi perduto, "gettato" in una situazione anomica, senza più punti di riferimento, se perde l'affetto (o la devozione incondizionata) di una figlia (o di una moglie); affinché una figlia (o una moglie) non debba più temere per la propria vita in conseguenza delle sue libere scelte individuali, affinché insomma ciascuno possa sentirsi un individuo accettato, compreso, amato anche e soprattutto per le sue scelte, per quell'identità che ci costruiamo insieme agli altri.
Per approfondire:
- La figlia uccisa perché conviveva con un italiano (Corriere);
- Il dramma della madre di Sanaa (Gazzettino);
- Il padre padrone (Repubblica);
- Sanaa come Hina, due vite stroncate (Sky);
- Il ministro Carfagna si costituisce parte civile nel processo per l'omicidio di Sanaa (Ansa).
Di questi temi avevo già parlato in Condizioni Umane, avviando anche con i miei studenti di scienze sociali un dibattito a partire da un articolo di Kureishi e dal libro di Susan Moller Okin Diritti delle donne e multiculturalismo, e in particolare sul saggio "Il multiculturalismo fa male alle donne?". La Okin incalza le donne e in particolare i movimenti per i diritti delle donne a porsi questa domanda: chi paga il conto dell'integrazione culturale? E la risposta purtroppo è sempre la stessa: lo pagano le fasce più deboli in ogni settore del mosaico culturale, ovvero i bambini o, come in questo caso, le giovani donne. Questo perché i bambini, in quanto soggetti al processo di socializzazione e le donne, in quanto principali responsabili della riproduzione materiale del gruppo, sono in realtà i veri soggetti forti di ogni comunità. Bambini e donne rappresentano la speranza, il futuro, la possibilità di rigenerazione, ma, al tempo stesso, anche la conservazione e la tradizione. Perciò essi sono rivendicati come "proprietà", quindi spesso con furore dalla comunità di appartenenza, la quale invoca ogni volta parole come identità, tradizione, cultura per giustificare tale esclusiva proprietaria.
Il fatto è che ogni cultura, ogni rivendicazione identitaria, ogni gesto con cui si rivendica l'appartenenza a una comunità è potenzialmente violento e generatore di violenza. Come scrive Francesco Remotti in Contro l'identità "l'identità non inerisce all'essenza di un oggetto; dipende invece dalle nostre decisioni" (Contro l'identità, p. 5). Non solo in una società moderna (come fanno credere i comunitaristi) ma in qualsiasi società noi decidiamo quale identità avere: essa non è un'essenza fissata una volta per tutte. Noi organizziamo la nostra identità, la costruiamo e la decostruiamo, la inventiamo e la reinventiamo, la formiamo e la deformiamo continuamente. Non si tratta di cedere a un facile convenzionalismo (come fanno molti antropologi e anche lo stesso Remotti) o, come si dice oggi spesso a sproposito, a un confortevole relativismo culturale, per cui ciascuno costruisce o decostruisce il proprio sé ritagliandoselo fra circostanze, occasioni, situazioni, opportunità (una sorta di sé poliforme o informe, ovvero "liquido", per usare la terminologia ormai un po' logora di Bauman). Il fatto che non si vuole accettare è che l'identità è un processo, è fondamentalmente relazione all'altro e capacità di riconoscimento. Nessuna cultura, nessuna concezione comunitaria che si chiuda in se stessa potrà mai eliminare questa sorta di "fatto della differenza". E se vuole eliminarlo, l'unico mezzo di cui potrà disporre sarà la violenza, il terrore, l'umiliazione, di cui Sanaa e Hina sono purtroppo solo i casi più eclatanti, perché donne, perché giovani, perché "integrate", dunque vittime predestinate di quell'ossessione identitaria e di quell'ideologia rabbiosa del possesso esclusivo alla quale non è estranea nessuna "tradizione". Lo sforzo che bisogna fare per evitare il ripetersi di casi come questi è spezzare quell'ossessione e quell'ideologia, non solo con gli strumenti repressivi del diritto, ma anche con il dialogo, il confronto, la ricostituzione di un tessuto di norme e di valori. Affinché un padre (o un marito) non debba più sentirsi perduto, "gettato" in una situazione anomica, senza più punti di riferimento, se perde l'affetto (o la devozione incondizionata) di una figlia (o di una moglie); affinché una figlia (o una moglie) non debba più temere per la propria vita in conseguenza delle sue libere scelte individuali, affinché insomma ciascuno possa sentirsi un individuo accettato, compreso, amato anche e soprattutto per le sue scelte, per quell'identità che ci costruiamo insieme agli altri.
Per approfondire:
- La figlia uccisa perché conviveva con un italiano (Corriere);
- Il dramma della madre di Sanaa (Gazzettino);
- Il padre padrone (Repubblica);
- Sanaa come Hina, due vite stroncate (Sky);
- Il ministro Carfagna si costituisce parte civile nel processo per l'omicidio di Sanaa (Ansa).
1 commento:
Amico
Bravo!
Molto buono tuo saggio, veramente profondo.
Dica me per favore si tu e il stesso alessandro bellan, autore del libro "La logica e il 'suo' altro. Il problema dell'alterità nella "Scienza della logica" di Hegel" della casa editrice Il Poligrafo?
un abbraccio, Danilo Vaz-Curado.
(email danilocostaadv@hotmail.com)
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