Marino, un signore di 61 anni senza fissa dimora, che vive di piccoli lavoretti e di notte dorme in un giaciglio di cartone in quella corte, ha un diverbio con un gruppo se non addirittura una "gang" di ragazzi e ragazze, forse dediti alla microcriminalità. Al suo giaciglio viene dato fuoco. Marino riesce a spegnere da solo le fiamme e resta illeso. Avrebbe potuto andare peggio, come nel caso del clochard di Rimini che rischiò di restare arso vivo a causa delle fiamme appicategli mentre dormiva su una panchina nella notte fra il 10 e l'11 novembre 2008. In quel caso, è qualcosa che brucia sapere che gli autori non erano dei balordi, ma quattro giovani "normali", un barista (20 anni), uno studente (20 anni), un elettricista (19 anni) e un perito chimico (19 anni): autori del gesto "per noia", come nelle storie del lancio di oggetti dai cavalcavia sulle autostrade. «Dovevi vederlo il barbone dentro al fuoco... Gli ho buttato addosso tutta la benzina che avevo. Lui non fiatava, dormiva».
Bruciare i poveracci che non si possono difendere è diventato uno sport molto praticato in Italia. Molti tentano diagnosi, interpretazioni, lanciano allarmi, danno valutazioni e giudizi.
Il politico: "E' un episodio molto grave, che deve farci riflettere, e ci costringe a una seria riflessione sul clima che si sta instaurando anche a Venezia".
Il poliziotto: "Abbiamo a che fare con dei ragazzini che per dimostrare qualcosa ai coetanei arrivano al limite compiendo atti vergognosi".
Il sociologo: "Questo atto è il frutto di una cultura dell'odio che individua nei diversi, nei reietti, un nemico da denigrare fino all'insulto e alla mortificazione".
Il prete: "Sono degli imbecilli".
Il cardinale: "Dietro questo gesto insensato c'è la noia in cui vivono molti dei nostri ragazzi".
La vicina: "Marino, perché non reagisci?"
Marino: "Se mi ribello fanno peggio".
Brucia l'idea di tolleranza, brucia l'idea che ragazzi e ragazze a 16-17 anni possano odiare così tanto da tentare di dar fuoco a una persona che non aveva fatto loro nulla di male.
Brucia la gioventù (anzi, la tarda adolescenza) nel rancore, nel risentimento, nella rabbia verso chi ormai viene visto come non-persona solo perché dorme su una panchina, avvolto da cartoni, "diverso" perché non condivide stili di vita, modi di essere, strutture di relazione. Come ha scritto C. Donolo in un'interessante analisi sullo stato della società italiana, "il nemico immaginario serve da regolatore morale: se non ci fosse andrebbe tutto bene", "il capro espiatorio è la soluzione facile e a sua volta è l'indice di una sindrome sociopatologica, in cui non ci si prende la responsabilità di nulla" ("non pensavamo di fare niente di male", "volevamo solo divertirci", dissero i giovani di Rimini che diedero fuoco al clochard addormentato su una panchina). Forse il barbone non è nemmeno percepito come nemico, ma è odiato in quanto è qualcuno che non si conforma, che se ne sta da solo, in certo modo autosufficiente e indipendente, nonostante l'interessamento degli operatori sociali. Chi trova la sua forza solo nell'intruppamento e nel gruppo, chi vive di una sorta di cameratismo a ciclo continuo, non può concepire che ci siano persone che vogliono stare sole e che in questa solitudine trovino ragioni per andare avanti in una vita che non ha offerto loro molte soddisfazioni. Nella società della connessione funzionale totale, in cui ciascuno dipende da altri, la dipendenza diventa una sindrome patologica e chi non dipende, chi è difforme o non conforme finisce per essere avvertito come una minaccia, un rischio da esorcizzare con fiamme purificatrici. A questo proposito Donolo ha parlato di un "defezionismo" che caratterizza la società italiana: "il defezionista non rispetta le regole, sa solo usarle a proprio vantaggio, specie se questo vantaggio è coniugato a un danno altrui; il defezionista non solo viola le regole, ma non sa darsene di altre che siano consistenti e compatibili". L'analfabetismo sociale si fonde con quello delle regole ed entrambi con quello che Galimberti chiama "analfabetismo emotivo": e allora è evidente che l'unica emozione che rompe il deserto di senso in cui certi ragazzi (ma non solo) si sentono immersi è dar fuoco a un campo rom piuttosto che a un barbone, le uniche regole sono quelle che vigono dentro il gruppo dei pari, che è poi l'unica dimensione sociale davvero conosciuta, e sperimentata dato che la società con la "s" maiuscola o non esiste, come volevano i neoliberisti, o coincide con il mercato; e nel mercato non c'è solidarietà umana, tolleranza, capacità di relazione con il diverso, ma solo do ut des, equivalenza, convenienza, calcolo. Così, "di quella dimensione sociale" che era il noi condiviso, osserva Galimberti ne L'ospite inquietante, e che in passato si poteva esprimere nella religione, nella politica o nella scuola, oggi "è rimasto solo quel tratto primitivo o quel cascame che è la banda. Solo con gli amici della banda oggi molti dei nostri ragazzi hanno l'impressione di poter dire davvero "noi", e di riconfermarlo in quelle pratiche di bullismo che sempre più caratterizzano i loro comportamenti a scuola. Lo sfondo è quello della violenza sui più deboli" e quando i più deboli non li si trova a scuola, li si va a cercare nelle corti, nei campi dei rom, sulle panchine, ovunque cioè sia osservabile una vita difforme, non-identica, non assimilabile ai meccanismi reificati che hanno alimentato la loro mente sin dall'infanzia, in virtù di una socializzazione prevalentemente televisiva e di un rapporto contrattualizzato con il mondo degli adulti (i "patti formativi" a scuola, le regole contrattate tra genitori e figli...), in cui la relazione all'altro è diventata un do ut des in cui, come scriveva già Ibsen in Casa di bambola, si "perde ogni libertà e bellezza" e soprattutto viene inaridita la relazione intersoggettiva come fonte di affettività, speranza, fiducia, spegnendo la sua capacità di produrre personalità stabili, capaci di seguire e di darsi una regola. Nell'altro che brucia non deve però andare in fumo anche la speranza che solo nei più giovani si possano rinvenire le risorse per spegnere la follia di tali incendi.
Bruciare i poveracci che non si possono difendere è diventato uno sport molto praticato in Italia. Molti tentano diagnosi, interpretazioni, lanciano allarmi, danno valutazioni e giudizi.
Il politico: "E' un episodio molto grave, che deve farci riflettere, e ci costringe a una seria riflessione sul clima che si sta instaurando anche a Venezia".
Il poliziotto: "Abbiamo a che fare con dei ragazzini che per dimostrare qualcosa ai coetanei arrivano al limite compiendo atti vergognosi".
Il sociologo: "Questo atto è il frutto di una cultura dell'odio che individua nei diversi, nei reietti, un nemico da denigrare fino all'insulto e alla mortificazione".
Il prete: "Sono degli imbecilli".
Il cardinale: "Dietro questo gesto insensato c'è la noia in cui vivono molti dei nostri ragazzi".
La vicina: "Marino, perché non reagisci?"
Marino: "Se mi ribello fanno peggio".
Brucia l'idea di tolleranza, brucia l'idea che ragazzi e ragazze a 16-17 anni possano odiare così tanto da tentare di dar fuoco a una persona che non aveva fatto loro nulla di male.
Brucia la gioventù (anzi, la tarda adolescenza) nel rancore, nel risentimento, nella rabbia verso chi ormai viene visto come non-persona solo perché dorme su una panchina, avvolto da cartoni, "diverso" perché non condivide stili di vita, modi di essere, strutture di relazione. Come ha scritto C. Donolo in un'interessante analisi sullo stato della società italiana, "il nemico immaginario serve da regolatore morale: se non ci fosse andrebbe tutto bene", "il capro espiatorio è la soluzione facile e a sua volta è l'indice di una sindrome sociopatologica, in cui non ci si prende la responsabilità di nulla" ("non pensavamo di fare niente di male", "volevamo solo divertirci", dissero i giovani di Rimini che diedero fuoco al clochard addormentato su una panchina). Forse il barbone non è nemmeno percepito come nemico, ma è odiato in quanto è qualcuno che non si conforma, che se ne sta da solo, in certo modo autosufficiente e indipendente, nonostante l'interessamento degli operatori sociali. Chi trova la sua forza solo nell'intruppamento e nel gruppo, chi vive di una sorta di cameratismo a ciclo continuo, non può concepire che ci siano persone che vogliono stare sole e che in questa solitudine trovino ragioni per andare avanti in una vita che non ha offerto loro molte soddisfazioni. Nella società della connessione funzionale totale, in cui ciascuno dipende da altri, la dipendenza diventa una sindrome patologica e chi non dipende, chi è difforme o non conforme finisce per essere avvertito come una minaccia, un rischio da esorcizzare con fiamme purificatrici. A questo proposito Donolo ha parlato di un "defezionismo" che caratterizza la società italiana: "il defezionista non rispetta le regole, sa solo usarle a proprio vantaggio, specie se questo vantaggio è coniugato a un danno altrui; il defezionista non solo viola le regole, ma non sa darsene di altre che siano consistenti e compatibili". L'analfabetismo sociale si fonde con quello delle regole ed entrambi con quello che Galimberti chiama "analfabetismo emotivo": e allora è evidente che l'unica emozione che rompe il deserto di senso in cui certi ragazzi (ma non solo) si sentono immersi è dar fuoco a un campo rom piuttosto che a un barbone, le uniche regole sono quelle che vigono dentro il gruppo dei pari, che è poi l'unica dimensione sociale davvero conosciuta, e sperimentata dato che la società con la "s" maiuscola o non esiste, come volevano i neoliberisti, o coincide con il mercato; e nel mercato non c'è solidarietà umana, tolleranza, capacità di relazione con il diverso, ma solo do ut des, equivalenza, convenienza, calcolo. Così, "di quella dimensione sociale" che era il noi condiviso, osserva Galimberti ne L'ospite inquietante, e che in passato si poteva esprimere nella religione, nella politica o nella scuola, oggi "è rimasto solo quel tratto primitivo o quel cascame che è la banda. Solo con gli amici della banda oggi molti dei nostri ragazzi hanno l'impressione di poter dire davvero "noi", e di riconfermarlo in quelle pratiche di bullismo che sempre più caratterizzano i loro comportamenti a scuola. Lo sfondo è quello della violenza sui più deboli" e quando i più deboli non li si trova a scuola, li si va a cercare nelle corti, nei campi dei rom, sulle panchine, ovunque cioè sia osservabile una vita difforme, non-identica, non assimilabile ai meccanismi reificati che hanno alimentato la loro mente sin dall'infanzia, in virtù di una socializzazione prevalentemente televisiva e di un rapporto contrattualizzato con il mondo degli adulti (i "patti formativi" a scuola, le regole contrattate tra genitori e figli...), in cui la relazione all'altro è diventata un do ut des in cui, come scriveva già Ibsen in Casa di bambola, si "perde ogni libertà e bellezza" e soprattutto viene inaridita la relazione intersoggettiva come fonte di affettività, speranza, fiducia, spegnendo la sua capacità di produrre personalità stabili, capaci di seguire e di darsi una regola. Nell'altro che brucia non deve però andare in fumo anche la speranza che solo nei più giovani si possano rinvenire le risorse per spegnere la follia di tali incendi.
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