28 gennaio 2012

Auschwitz, oggi

Theodor W. Adorno, il celebre filosofo e sociologo della Scuola di Francoforte, ha affermato che educare affinché Auschwitz non si ripeta è il compito più importante della filosofia e della pedagogia. Auschwitz non è stato semplicemente un campo di sterminio, un luogo di tortura e di orrore dove hanno perso la vita tra un milione e un milione e mezzo di persone.
Auschwitz è stato un "universo concentrazionario": l'esperimento atroce di una società chiusa in se stessa, che assorbe come un buco nero tutto ciò che proviene dall'esterno.
Una fabbrica della morte, dove l'altro, semplicemente perché è "altro", deve essere annientato.
Dove si muore per un sì o per un no. Dove non esiste un perché. Dove le "persone" non esistono nemmeno più, né fra le vittime, né fra i carnefici.
Dove il male è radicale: alla radice stessa di chi in quel luogo opera, agisce, lavora, muore.
Dove nemmeno le domande hanno più un senso.

Ma anche oggi il pregiudizio antisemita che ha condotto ad Auschwitz è presente fra noi. La mentalità indifferente, conformistica, l'aderire a quel che dicono e fanno gli altri, il pregiudizio diffuso verso immigrati, rom, sinti (gli "zingari maledetti" che tutti sembrano detestare), "clandestini", nomadi, omosessuali, è già un pezzo di Auschwitz. Il pregiudizio è una forma di debolezza: si vorrebbe che ci fosse qualcuno "forte" per eliminare i "deboli", quelli che danno fastidio, che non si integrano (così pare), che stanno ai margini, talvolta rubano e "inquinano" la nostra bella società. Fatta ovviamente da persone irreprensibili, moralmente al di sopra di ogni sospetto... Si fa presto a creare la categoria delle "non-persone".

A Firenze due senegalesi sono stati uccisi perché qualcuno in fondo la pensava in questo modo. Gli "altri", i "diversi" andavano e vanno annientati, per purificare la società. Per ricreare un'identità culturale incontaminata.


A Torino è stato dato alle fiamme un campo rom perché una sedicenne ha finto di essere stata stuprata da due nomadi.


Perciò dobbiamo parlare ancora di Auschwitz. Perché non si ripeta, nemmeno in scala minore.

20 gennaio 2012

Pedagogia, scienza del dissenso

«Sono molti i motivi per cui un bambino viene trascurato: la mancanza di amore e di dedizione, genitori assenti, indifferenti, autoritari, alcolizzati o drogati, condizioni sociali degradate sono le “classiche” cause che in ogni epoca rendono bambini e giovani incapaci di amare e di lavorare. Inoltre esistono bambini che non riescono a far fronte al benessere perché non c’è nessuno che si dedichi a loro, proprio come accade ai bambini che provengono da ambienti di degrado sociale: non c’è nessuno che li prenda per mano con fermezza, guidandoli attraverso un mondo di offerte illimitate, armandoli contro le seduzioni del superfluo... Negli ultimi anni si è diffuso un tipo di trascuratezza che sfocia principalmente in un comportamento pretenzioso difficile da sopportare ed egocentrico. Questi bambini conoscono troppo amore e troppa poca disciplina... Essi si aspettano costante dedizione sentimentale e materiale e non sanno rinunciare a nulla. Vivono secondo la formula dell’“Io-Tutto-Subito... Questi bambini crescono in situazioni ordinate, né mancano loro genitori amorevoli; però non sono sottoposti a limiti né richieste, e tanto meno conoscono l’effetto benefico della disciplina e di una guida sicura. I genitori – spesso una madre troppo affettuosa – spianano ai figli tutte le strade e sono sempre a loro disposizione».

Bernhard Bueb
, Elogio della disciplina

Educare significa primariamente “condurre” e la pedagogia risponde al come e al dove.
Temo che oggigiorno non sia chiaro il concetto di accompagnamento.
Questo verbo che deriva dal latino “cum ducere” significa “camminare con” e non “camminare per”. Accettare ciò significa accettare la disciplina, ossia quel qualcosa che ci permette di seguire un percorso, un cammino. Talvolta siamo noi stessi ad accorgerci del selciato e talvolta sono gli altri ad indicare la strada.
“Camminare con” significa assumersi la responsabilità di prendere parte ad un progetto educativo ma significa anche sopportare il dolore di chi cammina.
In virtù di ciò che ho detto, la pedagogia diviene il nostro “navigatore”, risponde a come e dove camminare e ci distoglie da un mondo di stradine e sentieri che non portano da nessuna parte. E’ proprio questa la pedagogia come “scienza del dissenso”.
Credo che Bueb sbagli ad opporre il concetto di amore a quello di disciplina.
Amare non vuol dire non faticare, non soffrire, non camminare o appunto essere indisciplinati.
Per educare bisogna amare e amare significa essere consapevoli e attenersi al “camminare insieme”, perché questo è l’obiettivo di chi educa.
Il disagio giovanile non è frutto di troppo amore o poca disciplina ma di una incapacità di attenersi al “camminare con”. Esso nasce infatti come una risposta ad un’esigenza di autonomia. Il tentativo di vivere esperienze nuove porta talvolta l’adolescente ad assumere com portamenti ed atteggiamenti che la società tende a classificare come “disagio giovanile”: il fumo, ad esempio, nasce dall’esigenza di emulare il grande, il gruppo dei pari dal bisogno di “camminare con” e la droga come tentativo di evasione da un mondo troppo stretto e incapace di accogliere le esigenze del giovane.
E’ giusto perciò che sia il contesto educativo a ritrovare la disciplina o perlomeno il coraggio di servirsene.
Credo che sia questa la presa di coscienza fondamentale che le sfide pedagogiche contemporanee ci chiedono di assumere: capire che la disciplina non è più tanto uno strumento da qualcuno per qualcuno ma una risorsa in ciascuno.
Sappiamo che disciplinare l’altro significa primariamente disciplinare noi ste ssi cioè obbligare noi stessi a compiere il nostro ruolo educativo.
La disciplina oggi insomma non è un diritto dell’educatore da esercitare ed un dovere dell’educando da rispettare, ma il contrario: essa è di diritto dovuta al giovane che cammina verso l’autonomia ed è dovere dell’educatore dispensarla in modo adeguato.
I giovani d’oggi non soffrono dunque per il cammino che devono percorrere ma perché nessuno fino ad oggi ha insegnato loro a camminare.
Edoardo Ervas, 4Bp "Duca degli Abruzzi" Treviso