15 gennaio 2009

Quel che ci insegna essere un numero


"Non voglio essere comandato, archiviato, istruito, interrogato... In breve, non sono un numero. La mia vita è solo mia". Chi pronunciava queste parole, ovvero il Numero Sei della famosa (almeno per chi ha una certa età...) serie TV "Il Prigioniero", Patrick McGoohan, si è spento il 13 gennaio 2009 all'età di 80 anni.
Ne parlo in questa sede non per fare un necrologio (che pure McGoohan merita, tuttavia non è questa la sede), ma perché la serie da lui co-ideata e interpretata è una delle migliori mai viste in televisione e soprattutto perché esprime uno sguardo non rassegnato sulla condizione umana nell'era contemporanea. Con molte cose da dire sulla natura violenta delle forme di risocializzazione e rieducazione, sulle teorie dell'apprendimento come stimolo e risposta, condizionamento operante, modellamento e su tutte le forme di apprendimento sociale. Il "Numero Sei", l'ex agente segreto deportato in un villaggio orwelliano in un'isola remota (ma che potrebbe essere qualsiasi luogo e che, rivista oggi, assomiglia tanto a un outlet o a un villaggio turistico) per carpirgli informazioni che si suppone possegga e voglia rivendere a qualche potenza straniera, è in realtà quello che tutti siamo diventati: numeri. Numeri che non contano per quello che sono o dicono, ma per il ruolo che svolgono, per la funzione o compito che è stata loro assegnata. "Il Prigioniero" smaschera la perversione di ogni relazione intersoggettiva nel mondo in cui vige come unico principio quello del valore di scambio (leggi denaro), mondo la cui unica legge è che ogni relazione intersoggettiva ha come fondamento l'interesse egoistico, la massimizzazione utilitaristica del tornaconto personale (sin dai tempi di Benjamin Franklin, nel famoso passo che Weber cita nell'Etica protestante e che Bataille ricorda ne Il limite dell'utile). "Un uomo come lei ha un valore inestimabile sul mercato", spiega il Numero Due al Numero Sei appena arrivato sull'isola. Non siamo capaci di pensare all'altro se non come qualcosa che ha come obiettivo immediato la rendita, il guadagno, l'utile personale. Definirei questo processo, seguendo Lukács, ma anche Bataille, reificazione, distorsione dello sguardo (e della coscienza) per cui si è capaci di guardare all'altro solo come cosa che ha come obiettivo ovvero può dare un utile. Certo anche una buona parte della psicologia dello sviluppo e dell'educazione si è talvolta messa al servizio di questa ideologia, sposando l'idea del controllo, dell'osservazione integrale e della previsione del comportamento, lasciando cadere quanto nell'umano è dispendio, eccesso, passione, insomma: agire disinteressato, sacrificio, spontaneità. Anche la psicologia, che dovrebbe custodire l'attenzione e il rispetto per ciò che vi è di più interiore e irriducibile dell'uomo, reifica il proprio sguardo, oggettivando l'uomo in una serie di comportamenti osservabili e quantificabili. In questo modo, però, essa diviene etologia.
La lezione che si trae dal Prigioniero non è per niente consolante. Ovvero: l'unica risposta che l'individuo può mettere in gioco è l'astuzia di Odisseo contro il Behemoth del Panopticon, della riduzione integrale agli automatismi e alle seduzioni della burocrazia, della tecnoscienza, del potere: ingannare mimeticamente il Potere, giocarlo con le sue stesse strategie. Ma qual è poi l'esito di tutta questa astuzia, mirabilmente dispiegata e invidiata al prigioniero da tutti i suoi avversari? Il Numero Sei, benché prigioniero, sorvegliato speciale e privo di mezzi, nonostante tutto resiste, si dimostra migliore di tutti i "potenti" che hanno cercato di sottometterlo e di estorcergli le famose "informazioni". Salvo poi scoprire l'orribile verità quando strappa la maschera al Numero Uno al cui cospetto è finalmente giunto. Egli non è in balia di un qualche potere esterno che lo minaccia e lo vuole al suo servizio, né di burocrati tanto potenti quanto incapaci: il Nemico è in lui stesso, è l'io, ripetuto ossessivamente come un raglio asinesco. Nel delirio finale c'è la verità della soggettività, cui la logica non è capace di approdare iuxta propria principia. Nel soggetto messo a nudo viene alla luce la sua naturalità violenta, indifferenziata, priva di intenzione. Noi siamo in balìa solo della nostra volontà di potenza.
Quel che ci insegna essere un numero, allora, è che in noi agisce una pulsione violenta e seducente a diventarlo. Essere numeri ci solleva, ci sgrava da pensieri, preoccupazioni, fastidi, come aveva già compreso Gehlen nella sua teoria delle istituzioni. E probabilmente rende "domestica" anche la nostra strutturale violenza. Ecco perché ci piace farci scannerizzare e catalogare entro precisi profili di marketing in quell'istituzione merceologica e mercificata postmoderna che è il Villaggio Globale in cui tutti siamo - volontariamente e spensieratamente - prigionieri.
La vera trasformazione pedagogica e sociale sarebbe quella che permettesse agli individui di prendere atto della natura autoreificante dell'io, della violenza che risiede nella nostra stessa soggettività e che ci rende soggetto e oggetto del potere e quindi della violenza, che fa di noi vittime e carnefici al tempo stesso. L'antidoto per i razzismi e l'odio per l'altro è la scoperta della natura violenta del mero esser-sé.
http://www.serietv.net/guide_complete/il_prigioniero/la_serie.htm
http://www.theprisoneronline.com/
http://rickmcgrath.com/the_prisoner.html/
http://www.ilprigioniero.it/wellcome.php
http://it.wikipedia.org/wiki/Il_prigioniero_(serie_televisiva)

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