29 gennaio 2009

Vergogna


Che cosa significa vergognarsi, provare vergogna, sentirsi male dalla vergogna? Si tratta di un sentimento o emozione ancora attuale in una società come la nostra, la quale (come si sente dire spesso da più parti), è "senza vergogna"? Cos'è dunque la vergogna? Sgomento di fronte a un errore, pudore violato, autocensura, avvilimento, disgusto per aver detto o fatto qualcosa di sbagliato? Secondo il Dizionario di Psicologia di Galimberti vergogna è il "turbamento o senso di indegnità avvertito dal soggetto che presume di ricevere o effettivamente riceve una disapprovazione del suo stato o di una sua condotta da parte degli altri". Hegel nell'Estetica vede nella vergogna qualcosa di positivo, perché consente all'uomo di cancellare quella dimensione di indigenza, tipica degli animali, che impedisce di esprimere compiutamente la vita dello spirito. E Sartre in L'essere e il nulla scrive che la vergogna è la coscienza di essere o poter diventare un oggetto, di scoprire me stesso come "quell'essere degradato, dipendente e cristallizzato che io sono per altri. La vergogna è il sentimento della caduta originale, non del fatto che abbia commesso questo o quell'errore, ma semplicemente del fatto che sono "caduto" nel mondo, in mezzo alle cose, e che ho bisogno della mediazione d'altri per essere ciò che sono". Quindi per Sartre la vergogna è, in un certo senso, l'orrore dell'uomo per la sua (sempre possibile) oggettivazione.
"E' una vergogna!", "Si vergogni!", "Vi dovete vergognare!", "Che vergogna...": la vergogna spinge all'uso ottativo, all'invettiva sdegnata, al richiamo indignato. Sempre più usata nella nostra lingua, l'espressione è causa anche di conflitti che finiscono nelle aule dei tribunali (si veda il caso raccontato qualche giorno fa da Gian Antonio Stella sul Corriere, su quanto occorso a una signora di Vittorio Veneto che ha usato una di quelle espressioni per apostrofare alcuni consiglieri durante un consiglio comunale). Oggi sembra che il "si vergogni" si sia sostituito al "non sono d'accordo con lei": dissentire, poiché richiede una paziente argomentazione, capacità di ascolto e di analisi, fa perdere tempo (e pazienza). Certo, a volte l'espressione viene effettivamente usata secondo il suo antico significato, per esprimere disapprovazione o turbamento per qualcosa che si disapprova moralmente. Ma sempre più frequentemente l'espressione sembra essere sempre più connotata in funzione censoria, per gettare discredito sull'interlocutore: è l'espressione che riscontro più spesso nei politici nostrani, soprattutto quando vanno a esibire il loro narcisismo nelle varie piazze o salotti televisive (e l'inventore-innovatore di questo uso forsennato dell'espressione è sicuramente il critico d'arte e politico Vittorio Sgarbi, con il suo iterativo e ad libitum "vergogna! vergogna! vergogna!"). Il punto è che secondo gli psicologi che se ne intendono le esperienze vergognose dovrebbero servire alla maturazione psicologica della persona, consentendo lo sviluppo delle capacità di autoanalisi e autocorrezione. Sempre più invece si osserva l'uso assolutamente improprio del termine, soprattutto nel dibattito politico, vista la natura eristica che ormai lo caratterizza.
Di altre cose invece non ci si vergogna, come ad esempio questa, successa a Treviso oppure questa, avvenuta a Guidonia, o quest'altra, a Nettuno. Si nasconde la vergogna con l'appello emotivo, ci si autoassolve dietro il "volevamo solo divertirci", come bambini incoscienti.
Ma l'appello alle emozioni e, soprattutto, l'uso politico-giuridico della vergogna non è soltanto una delle tipiche stramberie di cui si occupano i cacciatori di assurdità come Stella. In un importante studio, Martha Nussbaum mette in luce come il richiamo alle emozioni rappresenti un'importante novità nel diritto. Negli Stati Uniti, infatti, prendono sempre più piede sanzioni "che espongono", scrive la Nussbaum, "il reo alla vergogna", incoraggiando i cittadini "a stigmatizzare i trasgressori, inducendoci a vederli come individui disonorevoli e indecenti" (Hiding from Humanity, 2004, trad. it. Nascondere l'umanità. Il disgusto, la vergogna, la legge, Carocci 2005, p. 18).
L'umanità dovrebbe essere difesa, non esposta alla vergogna. Pensiamo solo alla tutela che sempre più garantiamo a quegli studenti che, per una qualche forma di malattia grave o disabilità cronica, possono usufruire di un insegnamento personalizzato senza doversi vergognare della loro condizione psicofisica (scuola in ospedale, istruzione domiciliare, ecc.). Una simile pratica protegge lo sviluppo dall'esposizione alla stigmatizzazione. Ma sempre più, nota la Nussbaum, si sta diffondendo anche la pratica contraria, ovvero esporre alla vergogna il colpevole di qualche reato o forma di devianza. Secondo alcune teorie (quelle comunitariste), nota la Nussbaum, "i cittadini di oggi hanno perso ogni inibizione con la conseguenza di provocare il disordine e il decadimento sociale. Secondo loro [i teorici del comunitarismo neoconservatori], il modo migliore per promuovere l'ordine sociale e dare appoggio ai valori importanti legati alla famiglia e alla vita sociale è stigmatizzare [cioè provocare artatamente il sentimento della vergogna] le persone che si comportano in modo deviante: chi fa abuso di alcool e di droghe, le madri single, le persone che vivono dei sussidi sociali" (p. 268). L'utilità di indurre il senso della vergogna sarebbe "espressivo": umiliare i devianti consente ai "normali" di affermare i propri valori (tesi sostenuta peraltro anche da Durkheim, ma in senso per lo più descrittivo). La vergogna è cioè un "deterrente": se vai con le prostitute pubblichiamo il tuo nome sui giornali, così i tuoi cari verranno a saperlo e cadrai nella loro stigmatizzazione. Certi giudici americani sanzionano il "driving under influence", cioè la guida in stato di ebbrezza, costringendo i colpevoli a portare sulla loro auto per un anno intero una targa con la scritta DUI (Driving Under Influence). Come dire: sono un ubriacone, state attenti. Ricorda sinistramente un pezzo di storia europea, quello delle leggi di Norimberga e dei numeri tatuati sulle braccia in quei posti che adesso qualcuno, anche fra le gerarchie ecclesiastiche, nega siano mai esistiti. Non solo: implica anche una concezione oggettivante dei sentimenti morali, strumentalizzando la vergogna per raggiungere obiettivi che vengono spacciati per educativi, etici, moralistici. Ma in questo modo si pensa alla persona umana come qualcosa che può essere trattato come mezzo, violando in tal modo il fondamento stesso dell'educazione, dell'etica, della morale, ovvero la Regola Aurea kantiana: "agisci in modo da considerare l'umanità, sia nella tua persona, sia nella persona di ogni altro, sempre al tempo stesso anche come scopo, e mai come semplice mezzo" (Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, a cura di V. Mathieu, Rusconi 1982, p. 126). Insomma, l'uso politico-pedagogico della vergogna contrasta con un'idea di interazione intersoggettiva basata su quello che deve essere il presupposto di ogni convivenza civile: che ci si possa intendere, che si possano correggere errori, distorsioni, manipolazioni e che, in ultima istanza, sia possibile la solidarietà (rinvio peraltro a un'interessante riflessione di F. Totaro sul problema della solidarietà).
Il libro della Nussbaum è fondamentale per chi è interessato a maggiori ragguagli sull'uso etico-politico della vergogna, nonché alle critiche che la filosofa americana muove alle pratiche sopra descritte. Tuttavia, anche senza leggere il libro, dovrebbe essere ormai assodato che una società decente non deve umiliare nessuno, tanto meno usare l'"etica/politica della vergogna" come strumento rieducativo. Ricordo infine che La vergogna (Skammen) è anche un bel film di Ingmar Bergman del 1968, sul tema della guerra. Il noto romanzo di J.M. Coetzee tradotto in italiano con Vergogna (Einaudi 2002), parla invece di un'altra cosa (infatti il titolo originale è Disgrace).

15 gennaio 2009

Quel che ci insegna essere un numero


"Non voglio essere comandato, archiviato, istruito, interrogato... In breve, non sono un numero. La mia vita è solo mia". Chi pronunciava queste parole, ovvero il Numero Sei della famosa (almeno per chi ha una certa età...) serie TV "Il Prigioniero", Patrick McGoohan, si è spento il 13 gennaio 2009 all'età di 80 anni.
Ne parlo in questa sede non per fare un necrologio (che pure McGoohan merita, tuttavia non è questa la sede), ma perché la serie da lui co-ideata e interpretata è una delle migliori mai viste in televisione e soprattutto perché esprime uno sguardo non rassegnato sulla condizione umana nell'era contemporanea. Con molte cose da dire sulla natura violenta delle forme di risocializzazione e rieducazione, sulle teorie dell'apprendimento come stimolo e risposta, condizionamento operante, modellamento e su tutte le forme di apprendimento sociale. Il "Numero Sei", l'ex agente segreto deportato in un villaggio orwelliano in un'isola remota (ma che potrebbe essere qualsiasi luogo e che, rivista oggi, assomiglia tanto a un outlet o a un villaggio turistico) per carpirgli informazioni che si suppone possegga e voglia rivendere a qualche potenza straniera, è in realtà quello che tutti siamo diventati: numeri. Numeri che non contano per quello che sono o dicono, ma per il ruolo che svolgono, per la funzione o compito che è stata loro assegnata. "Il Prigioniero" smaschera la perversione di ogni relazione intersoggettiva nel mondo in cui vige come unico principio quello del valore di scambio (leggi denaro), mondo la cui unica legge è che ogni relazione intersoggettiva ha come fondamento l'interesse egoistico, la massimizzazione utilitaristica del tornaconto personale (sin dai tempi di Benjamin Franklin, nel famoso passo che Weber cita nell'Etica protestante e che Bataille ricorda ne Il limite dell'utile). "Un uomo come lei ha un valore inestimabile sul mercato", spiega il Numero Due al Numero Sei appena arrivato sull'isola. Non siamo capaci di pensare all'altro se non come qualcosa che ha come obiettivo immediato la rendita, il guadagno, l'utile personale. Definirei questo processo, seguendo Lukács, ma anche Bataille, reificazione, distorsione dello sguardo (e della coscienza) per cui si è capaci di guardare all'altro solo come cosa che ha come obiettivo ovvero può dare un utile. Certo anche una buona parte della psicologia dello sviluppo e dell'educazione si è talvolta messa al servizio di questa ideologia, sposando l'idea del controllo, dell'osservazione integrale e della previsione del comportamento, lasciando cadere quanto nell'umano è dispendio, eccesso, passione, insomma: agire disinteressato, sacrificio, spontaneità. Anche la psicologia, che dovrebbe custodire l'attenzione e il rispetto per ciò che vi è di più interiore e irriducibile dell'uomo, reifica il proprio sguardo, oggettivando l'uomo in una serie di comportamenti osservabili e quantificabili. In questo modo, però, essa diviene etologia.
La lezione che si trae dal Prigioniero non è per niente consolante. Ovvero: l'unica risposta che l'individuo può mettere in gioco è l'astuzia di Odisseo contro il Behemoth del Panopticon, della riduzione integrale agli automatismi e alle seduzioni della burocrazia, della tecnoscienza, del potere: ingannare mimeticamente il Potere, giocarlo con le sue stesse strategie. Ma qual è poi l'esito di tutta questa astuzia, mirabilmente dispiegata e invidiata al prigioniero da tutti i suoi avversari? Il Numero Sei, benché prigioniero, sorvegliato speciale e privo di mezzi, nonostante tutto resiste, si dimostra migliore di tutti i "potenti" che hanno cercato di sottometterlo e di estorcergli le famose "informazioni". Salvo poi scoprire l'orribile verità quando strappa la maschera al Numero Uno al cui cospetto è finalmente giunto. Egli non è in balia di un qualche potere esterno che lo minaccia e lo vuole al suo servizio, né di burocrati tanto potenti quanto incapaci: il Nemico è in lui stesso, è l'io, ripetuto ossessivamente come un raglio asinesco. Nel delirio finale c'è la verità della soggettività, cui la logica non è capace di approdare iuxta propria principia. Nel soggetto messo a nudo viene alla luce la sua naturalità violenta, indifferenziata, priva di intenzione. Noi siamo in balìa solo della nostra volontà di potenza.
Quel che ci insegna essere un numero, allora, è che in noi agisce una pulsione violenta e seducente a diventarlo. Essere numeri ci solleva, ci sgrava da pensieri, preoccupazioni, fastidi, come aveva già compreso Gehlen nella sua teoria delle istituzioni. E probabilmente rende "domestica" anche la nostra strutturale violenza. Ecco perché ci piace farci scannerizzare e catalogare entro precisi profili di marketing in quell'istituzione merceologica e mercificata postmoderna che è il Villaggio Globale in cui tutti siamo - volontariamente e spensieratamente - prigionieri.
La vera trasformazione pedagogica e sociale sarebbe quella che permettesse agli individui di prendere atto della natura autoreificante dell'io, della violenza che risiede nella nostra stessa soggettività e che ci rende soggetto e oggetto del potere e quindi della violenza, che fa di noi vittime e carnefici al tempo stesso. L'antidoto per i razzismi e l'odio per l'altro è la scoperta della natura violenta del mero esser-sé.
http://www.serietv.net/guide_complete/il_prigioniero/la_serie.htm
http://www.theprisoneronline.com/
http://rickmcgrath.com/the_prisoner.html/
http://www.ilprigioniero.it/wellcome.php
http://it.wikipedia.org/wiki/Il_prigioniero_(serie_televisiva)