27 gennaio 2010

La giornata della memoria: Besa, un codice d'onore

In occasione della Giornata della Memoria il Museo Ebraico di Bologna (come già il Museo ebraico Carlo e Vera Wagner di Trieste) dedica una mostra realizzata dallo Yad Vashem, il Museo dell'Olocausto di Gerusalemme, al Codice d'onore albanese, il "Besa", in ricordo degli albanesi che salvarono migliaia di ebrei dalla Shoah.
Nei rispettivi siti dei musei è presente un'interessante ricostruzione di questa vicenda, davvero poco nota ai più e che merita di essere conosciuta. In Albania, paese a stragrande maggioranza musulmana, vivevano infatti appena qualche centinaio di ebrei su circa 800mila abitanti. Ma dopo il 1933, anno dell'ascesa di Hitler al cancellierato in Germania, l'Albania diede ospitalità e protezione a un migliaio di profughi ebrei provenienti non solo dalla Germania, ma anche dai paesi che stavano subendo o stavano per subire l'invasione delle truppe tedesche (Austria, Serbia, Grecia), mentre ovunque negli altri paesi europei si applicavano leggi razziali con la complicità o semplicemente nel silenzio della maggioranza dei cittadini.
L'Albania invece accolse i richiedenti asilo e si rifiutò di consegnare ai nazi-fascisti gli elenchi con i nomi degli ebrei che vivevano nel paese. Non solo, ma molte agenzie governative assicurarono a molti ebrei rifugiati documenti falsi che permisero loro di "mimetizzarsi" fra la popolazione albanese. Va ricordato che l'Albania dal 1939 era sotto l'occupazione italiana e che nel 1938 in Italia - e quindi anche in tutti i territori del suo "impero" - erano entrate in vigore le leggi razziali fasciste. Quindi essere cittadino albanese ed ebreo significava la deportazione nei campi di sterminio nazisti.
"Besa", si legge nella presentazione della mostra bolognese, "è una nobile promessa morale vincolata da scelte basate su un alto senso dell'onore e della giustizia umana. È un concetto che si stabilisce sull'antico codice albanese della virtù che impegna ogni albanese a prestare aiuto a chiunque si trovi in situazioni di necessità a prescindere dal suo status culturale, religioso, etnico, sociale, di età, ecc.". Come ha detto il figlio della famiglia albanese Vasheli, onorata dallo Yad Vashem del titolo di Giusti fra le nazioni per aver salvato molti ebrei, “la nostra casa è prima la casa di Dio, poi la casa dell’ospite, infine la casa della famiglia. Il Corano ci insegna che tutte le persone – ebrei, cristiani, musulmani – sono sotto un solo Dio”.
"Il concetto stesso di “Besa” - si legge ancora nel sito - non ha molto a che fare con la religione in sé poiché le virtù del coraggio, della compassione, dell’onore, della tolleranza e del sacrificio, che caratterizzano il codice d’onore albanese, in realtà sono all’origine dei valori caratteristici della storia di tutti gli albanesi. 'Besa' è radicato nel codice di comportamento albanese detto Kanun, un insieme di norme che sono state codificate per la prima volta dal principe Leke Dukagjini, intorno alla fine del XV secolo. Dukagjini era un amico e compagno di lotta del grande eroe albanese Gjergij Kastrioti detto 'Skanderberg' [in italiano noto come Giorgio Castriota Scanderberg] che combattè fieramente fino al 1468 per difendere l'Albania e l'Europa dall'invasione dei Turchi Ottomani".

25 gennaio 2010

Mandiamoli a casa!


Dal sito Vibrisse di Giulio Mozzi, un documento ideato da Andrea Civati con la collaborazione di Giuseppe Civati, Ilda Curti, Ernesto Ruffini, Roberto Tricarico. "Mandiamoli a casa!" è un repertorio di luoghi comuni, stereotipi, pregiudizi e credenze varie sull'immigrazione in Italia, puntualmente smontati in base a dati oggettivi tratti da fonti istituzionali (Istat, Censis, Banca d'Italia, Ministeri, Assessorati, ecc.). Certo, non è facile smontare credenze e costrutti mentali "rigidi" come i pregiudizi etnici con dati e tabelle, perché convinzioni simili sono notoriamente impermeabili ad argomenti razionali. Tuttavia la documentazione riportata è utile a chiunque voglia sapere con maggiore esattezza come stanno le cose a proposito degli stranieri in Italia. Ne cito alcune, per invogliare alla lettura del PDF:
- gli stranieri in Italia sono meno di cinque milioni e la comunità più numerosa è quella rumena (cittadini europei): quindi in maggioranza cristiani, e non musulmani;
- la maggior parte dei clandestini sono non africani ma asiatici; clandestini non si nasce ma si diventa ;
- a differenza di quanto si pensa in moltissimi paesi islamici sono presenti chiese cattoliche. L'unico paese in cui è espressamente vietata la costruzione di chiese è l'Arabia Saudita;
- il 72% dei lavoratori stranieri svolge lavori manuali e poco specializzati e solo il 27% lavora in ambiti più qualificati, mentre fra gli italiani solo il 37% svolge mansioni manuali;
- non è possibile istituire un nesso causale tra aumento della criminalità e flussi migratori: la forte presenza di immigrati nelle carceri è dovuta anche alla non applicazione delle misure alternative.
Ci sono molte altre cose utili, ma le lascio alla lettura degli interessati.

12 gennaio 2010

Blacks out, un giorno senza immigrati

Un giorno accadrà.
Succederà, prima o poi, come nel fantaromanzo di Vladimiro Polchi.
Cantieri fermi, fabbriche chiuse, mercati vuoti. Operai, braccianti, raccoglitori, regolari o in nero, hanno detto basta.
Vecchi che si lamentano perché le badanti ucraine o russe hanno incrociato le braccia, hanno detto basta anche loro.
Consegne non effettuate dai corrieri o camionisti extracomunitari, stufi di turni massacranti a consegnare merce e pacchi vari ordinati su internet.
Messe non celebrate da parroci di origine latinoamericana.
Giocatori di calcio, basket, rugby che si rifiutano di scendere in campo, stufi dei cori razzisti. E magari anche i bambini e i ragazzi italiani con la pelle di un altro colore, che parlano tre lingue e conoscono in modo ancora imperfetto l'italiano, lingua non facile da apprendere nemmeno per gli autoctoni, e che finiranno in qualche classe differenziale, perché rallentano il programma.
Stufi, tutti, di sentirsi dire che sono un "peso", un "problema", un "rischio", un "fattore di insicurezza", che "non rispettano le regole", che "non rispettano i nostri valori" o, semplicemente, che sono "troppi" e che devono "tornare da dove sono venuti".
Jenner Meletti ne parla oggi su Repubblica, qui. L'eterna guerra contro l'altro, l'altro come rischio, minaccia, paura. Ma anche l'altro che consente agli individui incapaci di far valere meglio la propria rabbia e di renderla produttiva per un cambiamento di ciò che li rende rabbiosi e risentiti, magari perché non vengono trattati da cittadini ma da sudditi da istituzioni latitanti, o da meri ingranaggi nel meccanismo della produzione.
Quello che è successo in questi giorni a Rosarno è un segnale d'allarme molto forte, non solo delle tensioni che stanno esplodendo tra italiani e immigrati, ma anche di un degrado che minaccia, attraverso l'umiliazione di quei diseredati, anche chi sta "alla finestra" illudendosi che tanto lui non ne verrà toccato.

07 gennaio 2010

Qualcosa che brucia

Venezia, notte del 3 gennaio 2010, nei pressi della Basilica dei Frari, corte Badoer.
Marino, un signore di 61 anni senza fissa dimora, che vive di piccoli lavoretti e di notte dorme in un giaciglio di cartone in quella corte, ha un diverbio con un gruppo se non addirittura una "gang" di ragazzi e ragazze, forse dediti alla microcriminalità. Al suo giaciglio viene dato fuoco. Marino riesce a spegnere da solo le fiamme e resta illeso. Avrebbe potuto andare peggio, come nel caso del clochard di Rimini che rischiò di restare arso vivo a causa delle fiamme appicategli mentre dormiva su una panchina nella notte fra il 10 e l'11 novembre 2008. In quel caso, è qualcosa che brucia sapere che gli autori non erano dei balordi, ma quattro giovani "normali", un barista (20 anni), uno studente (20 anni), un elettricista (19 anni) e un perito chimico (19 anni): autori del gesto "per noia", come nelle storie del lancio di oggetti dai cavalcavia sulle autostrade. «Dovevi vederlo il barbone dentro al fuoco... Gli ho buttato addosso tutta la benzina che avevo. Lui non fiatava, dormiva».
Bruciare i poveracci che non si possono difendere è diventato uno sport molto praticato in Italia. Molti tentano diagnosi, interpretazioni, lanciano allarmi, danno valutazioni e giudizi.
Il politico: "E' un episodio molto grave, che deve farci riflettere, e ci costringe a una seria riflessione sul clima che si sta instaurando anche a Venezia".
Il poliziotto: "Abbiamo a che fare con dei ragazzini che per dimostrare qualcosa ai coetanei arrivano al limite compiendo atti vergognosi".
Il sociologo: "Questo atto è il frutto di una cultura dell'odio che individua nei diversi, nei reietti, un nemico da denigrare fino all'insulto e alla mortificazione".
Il prete: "Sono degli imbecilli".
Il cardinale: "Dietro questo gesto insensato c'è la noia in cui vivono molti dei nostri ragazzi".
La vicina: "Marino, perché non reagisci?"
Marino: "Se mi ribello fanno peggio".
Brucia l'idea di tolleranza, brucia l'idea che ragazzi e ragazze a 16-17 anni possano odiare così tanto da tentare di dar fuoco a una persona che non aveva fatto loro nulla di male.
Brucia la gioventù (anzi, la tarda adolescenza) nel rancore, nel risentimento, nella rabbia verso chi ormai viene visto come non-persona solo perché dorme su una panchina, avvolto da cartoni, "diverso" perché non condivide stili di vita, modi di essere, strutture di relazione. Come ha scritto C. Donolo in un'interessante analisi sullo stato della società italiana, "il nemico immaginario serve da regolatore morale: se non ci fosse andrebbe tutto bene", "il capro espiatorio è la soluzione facile e a sua volta è l'indice di una sindrome sociopatologica, in cui non ci si prende la responsabilità di nulla" ("non pensavamo di fare niente di male", "volevamo solo divertirci", dissero i giovani di Rimini che diedero fuoco al clochard addormentato su una panchina). Forse il barbone non è nemmeno percepito come nemico, ma è odiato in quanto è qualcuno che non si conforma, che se ne sta da solo, in certo modo autosufficiente e indipendente, nonostante l'interessamento degli operatori sociali. Chi trova la sua forza solo nell'intruppamento e nel gruppo, chi vive di una sorta di cameratismo a ciclo continuo, non può concepire che ci siano persone che vogliono stare sole e che in questa solitudine trovino ragioni per andare avanti in una vita che non ha offerto loro molte soddisfazioni. Nella società della connessione funzionale totale, in cui ciascuno dipende da altri, la dipendenza diventa una sindrome patologica e chi non dipende, chi è difforme o non conforme finisce per essere avvertito come una minaccia, un rischio da esorcizzare con fiamme purificatrici. A questo proposito Donolo ha parlato di un "defezionismo" che caratterizza la società italiana: "il defezionista non rispetta le regole, sa solo usarle a proprio vantaggio, specie se questo vantaggio è coniugato a un danno altrui; il defezionista non solo viola le regole, ma non sa darsene di altre che siano consistenti e compatibili". L'analfabetismo sociale si fonde con quello delle regole ed entrambi con quello che Galimberti chiama "analfabetismo emotivo": e allora è evidente che l'unica emozione che rompe il deserto di senso in cui certi ragazzi (ma non solo) si sentono immersi è dar fuoco a un campo rom piuttosto che a un barbone, le uniche regole sono quelle che vigono dentro il gruppo dei pari, che è poi l'unica dimensione sociale davvero conosciuta, e sperimentata dato che la società con la "s" maiuscola o non esiste, come volevano i neoliberisti, o coincide con il mercato; e nel mercato non c'è solidarietà umana, tolleranza, capacità di relazione con il diverso, ma solo do ut des, equivalenza, convenienza, calcolo. Così, "di quella dimensione sociale" che era il noi condiviso, osserva Galimberti ne L'ospite inquietante, e che in passato si poteva esprimere nella religione, nella politica o nella scuola, oggi "è rimasto solo quel tratto primitivo o quel cascame che è la banda. Solo con gli amici della banda oggi molti dei nostri ragazzi hanno l'impressione di poter dire davvero "noi", e di riconfermarlo in quelle pratiche di bullismo che sempre più caratterizzano i loro comportamenti a scuola. Lo sfondo è quello della violenza sui più deboli" e quando i più deboli non li si trova a scuola, li si va a cercare nelle corti, nei campi dei rom, sulle panchine, ovunque cioè sia osservabile una vita difforme, non-identica, non assimilabile ai meccanismi reificati che hanno alimentato la loro mente sin dall'infanzia, in virtù di una socializzazione prevalentemente televisiva e di un rapporto contrattualizzato con il mondo degli adulti (i "patti formativi" a scuola, le regole contrattate tra genitori e figli...), in cui la relazione all'altro è diventata un do ut des in cui, come scriveva già Ibsen in Casa di bambola, si "perde ogni libertà e bellezza" e soprattutto viene inaridita la relazione intersoggettiva come fonte di affettività, speranza, fiducia, spegnendo la sua capacità di produrre personalità stabili, capaci di seguire e di darsi una regola. Nell'altro che brucia non deve però andare in fumo anche la speranza che solo nei più giovani si possano rinvenire le risorse per spegnere la follia di tali incendi.