28 novembre 2010

Il lavoro svalorizzato

Aggiungo una postilla al brano dei Manoscritti di Marx, pubblicando un estratto del libro di Marco Panara, La malattia dell'Occidente. Perché il lavoro non serve più.
Attendo anche in questo caso le vostre riflessioni e commenti, stavolta liberi da domande "scolastiche", perché la questione affrontata in questo importante studio è davvero urgente, soprattutto per chi, come voi, tra non molto dovrà fare i conti con questa "malattia".

Da La malattia dell´Occidente di Marco Panara, pubblicato da Laterza (2010).

Mettere insieme declino del valore del lavoro e peggioramento della qualità della democrazia non è una forzatura. Perché c´è un rapporto diretto tra lavoro e democrazia, un rapporto storico e biunivoco talmente forte che ne rende paralleli i destini.
La democrazia ateniese era fatta di uomini liberi e di schiavi, ove la democrazia era appannaggio dei primi e il lavoro era riservato ai secondi. La democrazia moderna è invece il frutto di un lunghissimo processo di liberazione del lavoro. Per molti secoli l´esperienza ateniese è stata cancellata, non solo nella realtà politica ma anche nel progetto, semplicemente non considerata tra le opzioni non solo possibili ma neanche auspicabili. A tirare fuori quel modello dalla sua cristallizzata classicità è stato il lentissimo e intermittente itinerario attraverso il quale il lavoro ha sciolto le sue catene. Un millennio e mezzo dopo Atene, sono stati nelle città gli artigiani e i mercanti, a volte diventati anche banchieri, a conquistarsi uno spazio economico e, a partire in Italia dai Comuni, anche politico. Una democrazia di pochi, corporativa, più vicina a quella di Atene nel suo elitarismo che a quella moderna, ma con la differenza rispetto all´età di Pericle che la chiave della conquista era stata il lavoro, la bottega, il commercio (mentre il lavoro agricolo rimaneva servile).
Il lavoro apre quindi un primo spazio, una prima crepa nell´assolutismo. Attraverso di esso emerge una nuova classe che non è figlia della guerra né della proprietà terriera, che ha una sua autonomia economica, un suo dinamismo e che comincia a crearsi un suo spazio politico: in certi luoghi, in certi periodi, non dappertutto e tutt´altro che stabilmente, ma è il primo passaggio con il quale il lavoro apre uno spazio di partecipazione politica. Passeranno altri secoli di assolutismi, ma quel seme borghese lentamente germinerà e farà le sue rivoluzioni (…)
È la perdita di valore del lavoro, è la nuova povertà, quella che avanza nei paesi industrializzati, due fattori collegati strettamente tra di loro che stanno lacerando quel rapporto fondamentale per la democrazia che è il legame tra il lavoro e i diritti. La precarizzazione del lavoro e il suo impoverimento contengono in sé la minaccia, e spesso la prospettiva o la realtà della povertà, la quale minaccia rende diffusa l´accettazione di lavoro senza diritti. La necessità, o la paura della povertà, spinge a barattare un po´ di reddito con la rinuncia ai diritti collegati al lavoro e questa rinuncia automaticamente ci riporta indietro nel tempo, a un´epoca predemocratica, quando il lavoro era solo e semplicemente sudore in cambio di (poco) denaro. La conclusione alla quale arriva Nadia Urbinati è che «l´associazione del lavoro al diritto non può essere considerata come un optional del quale si può fare a meno, ma è a tutti gli effetti un fattore di stabilità democratica».
La povertà, la paura della povertà, la separazione del lavoro dai diritti, il ritorno ad una concezione del lavoro bruta e legata alla sola sopravvivenza minacciano la democrazia. Ma non è questa l´unica minaccia. Ce n´è un´altra a questa specularmente collegata per affrontare la quale useremo la chiave proposta da un altro studioso, un economista politico questa volta, Michele Salvati.
Nel suo libro Capitalismo, mercato e democrazia (Il Mulino 2009), Salvati analizza il rapporto tra democrazia e capitalismo e postula che senza capitalismo, ovvero senza proprietà e mercato, la democrazia non ci può essere, e che però il capitalismo contrasta con la democrazia. La sua conclusione è che una buona democrazia è in grado di tenere a bada le tendenze peggiori del capitalismo. E il punto è proprio questo: perché una democrazia sia ‘buona´, e sia quindi in grado di contenere le forze che tenderebbero naturalmente a conculcarla, bisogna che ci siano interessi diffusi in grado di bilanciare quelli forti.
(…) I valori e le tendenze che si contrappongono nella dinamica di una società democratica sono quella egualitaria e quella elitaria o oligarchica, e il braccio di ferro avviene tra gli interessi – o i poteri – forti (oligarchici) e quelli diffusi (egualitari). Posto che a dare forza agli interessi forti è l´efficienza (fino ad un certo punto) del capitalismo nel creare ricchezza e benessere, cosa la dà agli interessi – o poteri – diffusi? La risposta è: il lavoro, il valore sociale ed economico del lavoro.
La discussione che ha portato alla formulazione dell´articolo 1 della Costituzione italiana è illuminante. A sollevare la questione dell´inserimento del concetto di lavoro è il cattolico Giorgio La Pira, che il 16 ottobre del 1946 nel corso dei lavori di una sottocommissione dell´Assemblea Costituente propone il seguente articolo: «Il lavoro è il fondamento di tutta la struttura sociale, e la sua partecipazione adeguata negli organismi economici, sociali e politici, è condizione del nuovo carattere democratico» (…).
Democrazia e lavoro si intrecciano quindi e la missione del lavoro, come fondamento della democrazia è darle la forza necessaria per essere ‘buona´, per essere una buona democrazia.

11 novembre 2010

Laboratorio sociologico, 4: Alexis de Tocqueville

Spersonalizzazione, appiattimento dei gusti, livellamento delle coscienze, volgarità diffusa: così Tocqueville vede la democrazia, esito di una "tirannia della maggioranza", ovvero di una massa anonima in balia degli stessi gusti e della moda, alla ricerca solo dell'apparenza mondana e del benessere materiale a tutti i costi.
Va subito precisato che per Tocqueville in politica il principio formale di maggioranza va rispettato. Si tratta però di un principio formale, non materiale: ciò che va respinto è invece il potere tirannico della maggioranza, perché esso annulla le libertà dell'individuo. Il "nuovo tiranno", cioè la maggioranza, minaccia la sfera spirituale, perché fa arrivare questo messaggio al "diverso", a chi non si conforma al suo potere: "se tu non vuoi nutrire i miei stessi pensieri e i miei stessi gusti, lo potrai fare: non sarai messo a morte, né perderai i tuoi diritti di cittadino. Ma questi diritti saranno inutili: perché se aspiri a farti eleggere dai tuoi concittadini, essi ti rifiuteranno; e ti sfuggiranno come un essere impuro e stravagante. Tu sei diverso dalla maggioranza: essa non ti riconosce; la tua vita è salva, ma è peggiore della morte!".
Alla luce di queste pagine tratte da La democrazia in America, discuti le riflessioni di Tocqueville sulla base delle seguenti domande-guida:
1) ritieni che la descrizione di Tocqueville di "una folla innumerevole di uomini eguali, intenti solo a procurarsi piaceri piccoli e volgari, con i quali soddisfare i loro desideri" sia ancora attuale? quali aspetti ti sembrano poco o niente affatto condivisibili?
2) Tocqueville sembra disprezzare le "folle" o le "masse" anonime. Quale fondamento ha, secondo te, questo giudizio così drastico?
3) nella tua esperienza personale hai mai avvertito questa "tirannia"? ti sei mai sentito oppresso dal volere della maggior parte dei tuoi pari (compagni, amici, conoscenti) che fa cose nelle quali tu non ti riconosci?

"La forma d'oppressione da cui sono minacciati i popoli democratici non rassomiglierà a quelle che l'hanno preceduta nel mondo
, i nostri contemporanei non ne potranno trovare l'immagine nei loro ricordi. Invano anch'io cerco un'espressione che riproduca e contenga esattamente l'idea che me ne sono fatto, poiché le antiche parole dispotismo e tirannide non le convengono affatto. La cosa è nuova, bisogna tentare di definirla, poiché non è possibile indicarla con un nome.
Se cerco di immaginarmi il nuovo aspetto che il dispotismo potrà avere nel mondo, vedo una folla innumerevole di uomini eguali, intenti solo a procurarsi piaceri piccoli e volgari, con i quali soddisfare i loro desideri. Ognuno di essi, tenendosi da parte, è quasi estraneo al destino di tutti gli altri: i suoi figli e i suoi amici formano per lui tutta la specie umana; quanto al rimanente dei suoi concittadini, egli è vicino ad essi, ma non li vede; li tocca ma non li sente affatto; vive in se stesso e per se stesso e, se gli resta ancora una famiglia, si può dire che non ha più patria.
Al di sopra di essi si eleva un potere immenso e tutelare
, che solo si incarica di assicurare i loro beni e di vegliare sulla loro sorte. È assoluto, particolareggiato, regolare, previdente e mite. Rassomiglierebbe all'autorità paterna se, come essa, avesse lo scopo di preparare gli uomini alla virilità, mentre cerca invece di fissarli irrevocabilmente nell'infanzia, ama che i cittadini si divertano, purché non pensino che a divertirsi. Lavora volentieri al loro benessere, ma vuole esserne l'unico agente e regolatore; provvede alla loro sicurezza e ad assicurare i loro bisogni, facilita i loro piaceri, tratta i loro principali affari, dirige le loro industrie, regola le loro successioni, divide le loro eredità; non potrebbe esso togliere interamente loro la fatica di pensare e la pena di vivere?
Così ogni giorno esso rende meno necessario e più raro l'uso del libero arbitrio, restringe l'azione della volontà in più piccolo spazio e toglie a poco a poco a ogni cittadino perfino l'uso di se stesso. L'eguaglianza ha preparato gli uomini a tutte queste cose, li ha disposti a sopportarle e spesso anche considerarle come un beneficio.
Così, dopo avere preso a volta a volta nelle sue mani potenti ogni individuo ed averlo plasmato a suo modo, il sovrano estende il suo braccio sull'intera società; ne copre la superficie con una rete di piccole regole complicate, minuziose ed uniformi, attraverso le quali anche gli spiriti più originali e vigorosi non saprebbero come mettersi in luce e sollevarsi sopra la massa; esso non spezza le volontà, ma le infiacchisce, le piega e le dirige; raramente costringe ad agire, ma si sforza continuamente di impedire che si agisca; non distrugge, ma impedisce di creare; non tiranneggia direttamente, ma ostacola, comprime, snerva, estingue, riducendo infine la nazione a non essere altro che una mandria di animali timidi ed industriosi, della quale il governo è il pastore.
Ho sempre creduto che questa specie di servitù regolata e tranquilla, che ho descritto, possa combinarsi meglio di quanto si immagini con qualcuna delle forme esteriori della libertà e che non sia impossibile che essa si stabilisca anche all'ombra della sovranità del popolo.

I nostri contemporanei sono incessantemente affaticati da due contrarie passioni: sentono il bisogno di essere guidati e desiderano di restare liberi; non potendo fare prevalere l'una sull'altra, si sforzano di conciliarle: immaginano un potere unico, tutelare ed onnipotente, eletto però dai cittadini, e combinano l'accentramento con la sovranità popolare. Ciò dà loro una specie di sollievo: si consolano di essere sotto tutela pensando di avere scelto essi stessi i loro tutori. Ciascun individuo sopporta di sentirsi legato, perché pensa che non sia un uomo o una classe, ma il popolo intero a tenere in mano la corda che lo lega.
In questo sistema il cittadino esce un momento dalla dipendenza per eleggere il padrone e subito dopo vi rientra."
A. de Tocqueville, La democrazia in America, a cura di G. Candeloro, Rizzoli, Milano 1996, pp. 732-33.

Laboratorio sociologico, 3: Auguste Comte


In queste pagine celebri, tratte dal Corso di filosofia positiva (1830-42), Comte descrive la famosa legge dei tre stadi. Comte ritiene, cioè, che lo sviluppo storico dell'umanità, come quello individuale, passi da un'"infanzia" (corrispondente allo stadio teologico-fittizio) a una "gioventù" (stadio metafisico-astratto) fino ad arrivare all'età adulta (stadio scientifico o positivo). A ciascuna di esse corrisponde una specifica modalità di conoscenza.
Dopo aver letto il brano, spiegate il testo rispondendo alle seguenti domande:
1) in quale stadio di sviluppo dell'umanità si cercano le leggi oggettive dei fenomeni attraverso l'osservazione?
2) Comte afferma che lo sviluppo dell'intelligenza umana è soggetto a una legge "per necessità invariabile". Che cosa intende con tale espressione?
3) Comte afferma che lo stadio metafisico non trasforma in modo sostanziale la conoscenza propria dello stadio teologico. In che senso?
4) Perché lo stadio positivo rappresenta la fase "adulta" dell'intelligenza?
5) Comte ritiene di aver scoperto la legge fondamentale della storia umana. Anche Marx, quasi negli stessi anni, riteneva di aver individuato nel materialismo storico la legge che governa la storia. Che differenza c'è fra le due scoperte?

"Per spiegare convenientemente la vera natura ed il carattere proprio della filosofia positiva è necessario gettare uno sguardo d’insieme sul cammino progressivo dello spirito umano, perché qualsiasi dottrina può essere meglio conosciuta quando se ne conosce la storia.
Studiando così lo sviluppo dell’intelligenza umana nelle sue diverse sfere di attività, dalle prime manifestazioni fino ai nostri giorni, credo di aver scoperto una grande legge fondamentale, alla quale esso è soggetto con necessità invariabile e che può essere definita in modo preciso sia con prove razionali ricavate dalla conoscenza della nostra organizzazione, sia con la verifica storica risultante da un attento esame del passato.
Questa legge consiste nel fatto che ogni nostra concezione fondamentale, ciascun settore delle nostre conoscenze, passa successivamente attraverso tre stadi diversi: lo stadio teologico o fittizio; lo stadio metafisico o astratto; lo stadio scientifico o positivo. In altre parole lo spirito umano, per sua natura, adopera successivamente, in tutte le sue ricerche, tre metodi di filosofare, il cui carattere è essenzialmente differente e persino opposto: all’inizio il metodo teologico, quindi quello metafisico, infine il metodo positivo. Da lì hanno origine tre tipi di filosofia, o di concezioni generali sull’insieme dei fenomeni, che si escludono reciprocamente; il primo è il punto di partenza necessario dell’intelligenza umana, il terzo la sua sistemazione definitiva e fissa, il secondo vale soltanto come momento di passaggio.
Nello stadio teologico lo spirito umano indirizza essenzialmente le sue ricerche verso la natura intima delle cose, le cause prime e le cause ultime di tutti gli effetti che lo colpiscono, in una parola, verso le conoscenze assolute e si rappresenta i fenomeni come prodotti dall’azione diretta e continua di agenti sovrannaturali piú o meno numerosi, il cui arbitrario intervento dà ragione di tutte le contraddizioni apparenti dell’universo.
Nello stadio metafisico, che non è in fondo se non una semplice modificazione generale del precedente, gli agenti sovrannaturali sono sostituiti da forze astratte, vere entità inerenti ai diversi esseri del mondo e concepite come capaci di produrre esse stesse tutti i fenomeni osservati, la cui spiegazione consiste dunque nell’assegnare a ciascuno l’entità corrispondente.
Infine nello stadio positivo lo spirito umano riconoscendo l’impossibilità di raggiungere delle nozioni assolute rinuncia a cercare l’origine ed il destino dell’universo ed a conoscere le cause intime dei fenomeni, per dedicarsi unicamente a scoprire, con l’uso opportunamente combinato del ragionamento e dell’osservazione, le loro leggi effettive, cioè le loro relazioni invariabili di successione e di somiglianza. La spiegazione dei fatti, ridotta dunque nei suoi termini reali, non è altro ormai che il legame posto tra i diversi fenomeni particolari ed alcuni fatti generali; di qui derivano i progressi della scienza che tende sempre piú a diminuire il numero delle leggi [...]
Ordunque, se la filosofia positiva è il vero e proprio stato definitivo dell’intelligenza umana, quello stato verso cui essa è stata sempre piú intensamente protesa, nondimeno essa ha dovuto necessariamente impiegare all’inizio e durante una lunga successione di secoli sia come metodo, sia come dottrina provvisoria, la filosofia teologica; filosofia il cui carattere è d’essere spontanea, e perciò la sola possibile all’origine, la sola anche che possa offrire al nostro spirito nascente un interesse sufficiente. È ora molto facile accorgersi che per passare da questa filosofia provvisoria alla filosofia definitiva, lo spirito umano ha dovuto naturalmente adottare, come filosofia transitoria, i metodi e le dottrine metafisiche. Quest’ultima considerazione è indispensabile per completare il breve ragguaglio generale sulla grande legge che ho prospettato."

Laboratorio sociologico, 2: Karl Marx

Il testo che segue è tratto dai Manoscritti economico-filosofici del 1844 di Marx, pubblicati postumi nel 1932. Il brano illustra un importante concetto sociologico che abbiamo studiato in classe, ovvero l'alienazione del lavoro nel mondo capitalistico. Abbiamo appreso, infatti, che nei precedenti modi di produzione l'alienazione era assente: c'era sì la schiavitù, la servitù, la subordinazione, il vassallaggio, lo sfruttamento, il disprezzo della vita umana: ma non c'era quel fenomeno tipico del capitalismo che è l'alienazione. Marx poi svilupperà in modo più "scientifico" queste sue tesi nei celeberrimi tre libri del Capitale.
Marx parte da un'affermazione che sarà poi caratteristica del suo materialismo storico: "noi partiamo dall'economia politica, da un fatto presente". Il materialismo storico parte cioè da quello che accade veramente, dalle concrete condizioni materiali di esistenza degli uomini, dal loro lavoro, non da ciò che dovrebbe essere (tipico del socialismo utopico alla Saint-Simon). La domanda che sorge allora è: perché l'operaio, come scrive Marx, è estraneo al prodotto del suo lavoro? Questo sembra nascondere "il segreto" del capitalismo: esso funziona tanto meglio quanto più i lavoratori sono "estraniati" da ciò che fanno, con conseguenze devastanti, sia sul piano psicologico-individuale che su quello sociale.
Nel discutere questo testo, vi ricordo che quando Marx scrive queste pagine non esistevano:
- sussidi di disoccupazione;
- cassa integrazione e altri "ammortizzatori sociali";
- Welfare State.

"Noi partiamo da un fatto dell'economia politica, da un fatto presente.
L'operaio diventa tanto più povero quanto maggiore è la ricchezza che produce, quanto più la sua produzione cresce di potenza e di estensione. L'operaio diventa una merce tanto più vile quanto più grande è la quantità di merce che produce. La svalorizzazione del mondo umano cresce in rapporto diretto con la valorizzazione del mondo delle cose. Il lavoro non produce soltanto merci; produce se stesso e l'operaio come una merce, e proprio nella stessa proporzione in cui produce in generale le merci.
Questo fatto non esprime altro che questo: l'oggetto che il lavoro produce, il prodotto del lavoro, si contrappone ad esso come un essere estraneo, come una potenza indipendente da colui che lo produce. Il prodotto del lavoro è il lavoro che si è fissato in un oggetto, è diventato una cosa, è l'oggettivazione del lavoro. La realizzazione del lavoro è la sua oggettivazione. Questa realizzazione del lavoro appare nello stadio dell'economia privata come un annullamento dell'operaio, l'oggettivazione appare come perdita e asservimento dell'oggetto, l'appropriazione come estraniazione, come alienazione.
La realizzazione del lavoro si presenta come annullamento in tal maniera che l'operaio viene annullato sino a morire di fame. L'oggettivazione si presenta come perdita dell'oggetto in siffatta guisa che l'operaio è derubato degli oggetti più necessari non solo per la vita, ma anche per il lavoro. Già, il lavoro stesso diventa un oggetto, di cui egli riesce a impadronirsi soltanto col più grande sforzo e con le più irregolari interruzioni. L'appropriazione dell'oggetto si presenta come estraniazione in tale modo che quanti più oggetti l'operaio produce, tanto meno egli ne può possedere e tanto più va a finire sotto la signoria del suo prodotto, del capitale. Tutte queste conseguenze sono implicite nella determinazione che l'operaio si viene a trovare rispetto al prodotto del suo lavoro come rispetto ad un oggetto estraneo. Infatti, partendo da questo presupposto è chiaro che: quanto più l'operaio si consuma nel lavoro, tanto più potente diventa il mondo estraneo, oggettivo, che egli si crea dinanzi, tanto più povero diventa egli stesso, e tanto meno il suo mondo interno gli appartiene. Lo stesso accade nella religione. Quante più cose l'uomo trasferisce in Dio, tanto meno egli ne ritiene in se stesso. L'operaio ripone la sua vita nell'oggetto; ma d'ora in poi la sua vita non appartiene più a lui, ma all'oggetto. Quanto più grande è dunque questa attività, tanto più l'operaio è privo di oggetto. Quello che è il prodotto del suo lavoro, non è egli stesso. Quanto più grande è dunque questo prodotto, tanto più piccolo è egli stesso. L'alienazione dell'operaio nel suo prodotto significa non solo che il suo lavoro diventa un oggetto, qualcosa che esiste all'esterno, ma che esso esiste fuori di lui, indipendente da lui, a lui estraneo, e diventa di fronte a lui una potenza per se stante; significa che la vita che egli ha dato all'oggetto, gli si contrappone ostile ed estranea."
K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, trad. it. di N. Bobbio, Einaudi, Torino 1970, pp. 71-72.