16 dicembre 2010

Razionalizzazione e società moderna

Secondo Max Weber la società moderna è il frutto di un processo di razionalizzazione. Si tratta di un fenomeno (tipicamente occidentale, ma non solo) che interessa ogni ambito della vita culturale: il diritto, l'economia, l'arte, la religione, la politica e la scienza e che vede la razionalità affermarsi come unico criterio di interpretazione del mondo.
Weber ha trattato in molti passaggi delle sue opere il tema della razionalizzazione ma, a detta degli studiosi, è soprattutto nell'Osservazione preliminare e nella Considerazione intermedia contenute nei tre volumi della Sociologia della religione (1920-21) che possiamo trovare la trattazione più chiara di questo tema cruciale.
Weber, fondamentalmente, vuole refutare la concezione materialistica della storia, con la sua celebre tesi su struttura e sovrastruttura. La razionalità che ha portato alla società moderna per Marx è essenzialmente legata ai rapporti sociali di produzione, alla prassi, che è legata agli interessi economici, espressione del modo di produzione con cui gli uomini regolano e organizzano la riproduzione della loro esistenza materiale. Per Weber, invece, la razionalità che ha portato alla società moderna non è semplicemente una razionalità economica guidata dall'imperativo della riproduzione materiale del genere. Il processo che ha portato all'attuale organizzazione sociale prende invece le mosse molto più lontano nel tempo, in particolare nelle religioni monoteistiche, in particolare nell'ebraismo e nel cristianesimo (ma anche i miti). Le religioni monoteistiche, infatti, rappresentano una liberazione dalla magia e quindi "razionalizzano" - nel senso che rendono più "razionale" - il rapporto del credente con la divinità. Basti pensare alla predicazione dei profeti, a quel che dice Gesù a proposito dei miracoli o al famoso episodio, negli Atti degli Apostoli, di Simon Mago.
Il processo di razionalizzazione inizia quindi con un disincantamento del mondo, cioè quando si rompe l'incantesimo, precisamente con il passaggio da una concezione di tipo magico a una concezione di tipo mitologico (che è già una forma di "illuminismo", cioè di spiegazione anti-magica del mondo e quindi di razionalizzazione, come avevano ben compreso Max Horkheimer e Theodor Adorno nella Dialettica dell'illuminismo). Nella Sociologia delle religioni leggiamo infatti che "quel gran processo storico-religioso di disincantamento (Entzauberung der Welt) che... rigettò tutti i mezzi magici nella ricerca della salvezza considerandoli come superstizione delittuosa, trovò qui [nel protestantesimo] la sua conclusione". Quindi il disincantamento sta all'inizio, non alla fine come è ancora scritto in molti manuali, mentre il processo di razionalizzazione è ancora in atto.
Nel mondo moderno è infatti finito l'"incantesimo", che letteralmente significa "legare" qualcosa o qualcuno grazie alla recitazione di formule magiche, imponendo a quello la propria volontà o togliendogli la propria. Oracoli, maghi, stregoni, sciamani, fattucchieri, astrologi, alchimisti, cartomanti sono i tipici rappresentanti di una religiosità pre-razionalizzata, espressione del tentativo di dominare la natura, di piegarne le leggi assoggettandole alle richieste umane (con formule, riti, sacrifici anche umani, ecc.). Nel libro del profeta Isaia Dio, rivolgendosi al popolo di Israele "i miei pensieri non sono i vostri pensieri / e le vostre vie non sono le mie vie" (Is 55,8). Questo significa che il Dio della Bibbia non accetta di essere condizionato da e piegato alle richieste umane. Egli è l'assolutamente libero e agisce indipendentemente da tutti i tentativi umani di propiziarsi magicamente, con sacrifici rituali o preghiere, la sua benevolenza. Questo pone le basi per l'allontanamento dell'esperienza religiosa dal mondo (ascetismo) e fa sì che l'unica immagine plausibile del mondo divenga la sua rappresentazione scientifica, basata su un meccanismo causale privo di finalità.
Questo fa sì che nel mondo moderno si è ormai arrivati a un punto oltre il quale non è più possibile produrre un "disincantamento ulteriore". Ma ciò non significa che le antiche forze, dèi e demoni, siano stati sconfitti per sempre. Questa era piuttosto la pretesa di Comte e dei positivisti, che finivano per trasfigurare la scienza in religione laica del mondo moderno. Ma la scienza produce un deserto di senso, mentre l'uomo continua ad aver bisogno di "effetti di senso" e quindi di essere, almeno in parte, "reincantato". Si spiega così la fortissima affascinazione contemporanea per le compensazioni esoteriche (massonerie, sette, culti neopagani ecc.), il ritorno delle religioni, anche nelle versioni più dogmatiche e intransigenti (integralismo e fondamentalismo), l'importanza delle azioni emotivo-affettive (ad es. l'amore) e tradizionali (riti, ecc.) nonostante tutto avvenga in un cosmo razionalizzato, oggetto dei calcoli e delle previsioni della razionalità strumentale.
Emerge così un nuovo reincantamento del mondo che Weber definisce "politeistico", cioè una vera e propria rivincita degli antichi dèi e demoni - che diventa il nostro ethos postmoderno. Il paradosso è che è la razionalizzazione stessa a consegnarci a un mondo popolato di valori di senso molteplici e irriducibili gli uni agli altri (quella che Schmitt ha rigettato come "tirannia dei valori"), perché ormai ognuno decide da sé come dare senso alla propria vita (pluralismo culturale), anche con religioni "fai da te".
In questo senso si può dire che Weber è stato l'ultimo dei moderni e il primo dei postmoderni ed è proprio qui che sta la sua profonda attualità.

02 dicembre 2010

Anomia italiana: la rottura del legame sociale

Segnalo questo articolo comparso ieri su Repubblica. Si tratta di un'intervista a Marco Revelli, noto storico, sociologo e politologo, autore del recente saggio Poveri, noi (Einaudi 2010), in cui esplora la fine del legame sociale e di quella "solidarietà organica", che abbiamo appreso studiando Durkheim, e il ritorno a rapporti di subordinazione di tipo feudale ("L'individuo insicuro della propria posizione e timoroso del proprio fallimento chiede al potere protezione e offre al potere fedeltà... Si rischia l'abdicazione al proprio status di cittadino e un ritorno alla passività del suddito").
Lo sottopongo alla vostra riflessione, perché qui in fondo si parla soprattutto di voi - "i massacrati" da questa "anomia" - e del vostro futuro.

Sono i lavoratori del ceto medio e i giovani, i nuovi poveri in Italia. La situazione è peggiorata per tutti, più grave che all' inizio degli anni Ottanta quando si contavano sei milioni di persone in condizioni di indigenza. Oggi non soltanto sono almeno due milioni in più ma - secondo i dati Istat del 2008 - gli italiani messi ko da una spesa imprevista di settecento euro sono diciannove milioni, più di un terzo della popolazione. Proprio noi messi così male, noi che apparteniamo al "club dei grandi"? È un ritratto dell' Italia reale, stridente nell' asprezza dei numeri con il racconto "apologetico" del potere, Poveri, noi, il breve saggio di Marco Revelli in uscita oggi da Einaudi (pagg. 128, euro 10). Il politologo, alla guida negli ultimi tre anni della Commissione d'indagine sull'esclusione sociale, racconta un Bel Paese più povero e molto più cattivo. Usa una metafora: come Gregor Samsa, il protagonista del celebre racconto di Kafka, anche noi un giorno ci siamo svegliati e ci siamo ritrovati irriconoscibili. Non solo delle canaglie con gli "ultimi" della piramide sociale che è meglio spingere sempre più in basso, meglio ancora se "fuori". Ormai con un'inedita ferocia trattiamo un po' tutti gli "altri", quelli che per le ragioni più svariate stanno peggio di noi -negli ambienti di lavoro come anche in famiglia.
Professor Revelli, lei fa dubitare delle "magnifiche sorti e progressive" di questo Paese così pieno di simboli di un' opulenza anche ostentata. Non sarà un catastrofista?
«Sono i numeri e i fatti, le statistiche e le storie di cronaca che denunciano vistosamente l' estrema fragilità della nostra struttura economica, sociale e anche morale. Non solo non siamo in crescita, ma su un piano che inclina pericolosamente verso l'arretratezza. Viviamo una condizione generalizzata di malessere che disgrega il tessuto sociale, producendo una rottura a catena delle relazioni, dei legami, dei meccanismi più elementari della solidarietà. Gli effetti sono gravissimi sulla qualità e sulle prospettive della nostra democrazia».
La crisi morde anche sulle fasce finora considerate relativamente "forti" del mercato del lavoro: sul ceto medio. Chi sono questi nuovi poveri?
«Sono figure sociali estranee alla "cultura della povertà" che - per stile di vita, interessi, amicizie, rapporti professionali, modelli famigliari - appartengono a tutti gli effetti a una middle class che si considerava "garantita" contro il rischio del declassamento e a maggior ragione dell' impoverimento».
Faccia degli esempi.
«C' è l'ingegnere dell' Eutelia (ex Olivetti) ad altissimo livello di professionalità che contava su un reddito medio-alto e si ritrova "messo in mobilità". Ci sono i tanti impiegati delle industrie, i "quadri" tecnici d'improvviso privi di consulenze, i piccoli e medi commercianti schiacciati dalla grande distribuzione. Tutti fino all'altro giorno sicuri del proprio tenore di vita, e ora in grave affanno. E poi ci sono le donne, anche laureate e con una posizione professionale di tutto rispetto, costrette a cambiare radicalmente vita se si ritrovano sole - dopo una separazione, il che è molto frequente. Sono donne che spesso hanno figli, pagano una baby sitter, e magari anche il mutuo o le rate dell'auto... Non saranno "tecnicamente" povere, ma la loro è una condizione difficile, per quanto in genere dissimulata».
Sono invece tutt'altro che poveri "occulti" i giovani, derubati del presente e del futuro. Lei scrive che sono stati "massacrati". Non teme che l'espressione sia troppo forte?
«No, perché sono proprio loro le vittime sacrificali del declino del nostro Paese. Qui parlano i numeri: l' 80 per cento dei posti di lavoro perduti tra il 2008 e il 2010 riguarda i giovani, quelli che erano entrati per ultimi nel mercato del lavoro, attraverso la porta sfondata dei contratti atipici, a termine, a somministrazione, a progetto... Precari nello sviluppo, disoccupati nella crisi, senza la copertura degli ammortizzatori, spesso senza neppure un sussidio minimo. La scelta di puntare esclusivamente sulla cassa integrazione ha aperto un ombrello sui padri, ma lasciando fuori i figli, licenziabili con facilità e a costo zero. I più istruiti e altamente qualificati, quelli che appartengono al "mondo dei cognitivi", alle nuove professioni come l'informatica, sono ormai ridotti a sottoproletariato».
C'è poi lo scandalo della povertà delle famiglie numerose, il 40 per cento concentrate nel Sud. Quanti sono in Italia i bambini che oggi non hanno niente e domani saranno degli adulti a rischio?
«Il Paese del Family Day ha il triste privilegio di avere il tasso più alto di povertà minorile dell'Unione europea. A inchiodarci a un 25 per cento è Eurostat: come dire che un minorenne su quattro vive in una famiglia molto disagiata, e che in questo Paese fare più di due figli è una maledizione».
Cosa ci sbattono in faccia - sgradevolmente - le statistiche dei poveri?
«La realtà di un Paese che arranca e l'illusionismo allucinatorio di un Paese virtuale da piani alti. In mezzo, tra le punte della forbice, trovano terreno fertile le frustrazioni e i veleni, i risentimenti e i rancori, le rese morali e i fallimenti materiali, le solitudini e le crisi d'identità che hanno sfregiato l'antropologia sociale italiana. L'indurimento del carattere nazionale e la diffusione dell'invidia come sentimento collettivo. L'intolleranza per le fragilità dei deboli, la tolleranza per i vizi dei potenti. Tutto il repertorio d'ingredienti che hanno nutrito le fiammate populiste, il "tribalismo territoriale" come forma di risarcimento, ma anche le più silenziose ondate di "esodo" dalla politica e dallo spazio pubblico».
Con quali effetti sulla qualità della democrazia italiana?
«I principi democratici vengono profondamente corrosi in un Paese dove cade la speranza nei meccanismi di redistribuzione del reddito e sembra impossibile attingere alla ricchezza dei pochi fortunati, dove chi è povero è destinato a rimanere povero e una parte consistente della popolazione cessa di considerare pubblicamente garantita la propria aspirazione a una vita degna. L'individuo insicuro della propria posizione e timoroso del proprio fallimento chiede al potere protezione e offre al potere fedeltà. Oggi questo scambio perverso riempie il vuoto lasciato dai diritti, ma né la discrezionalità dei diversi titolari dei poteri né la dedizione dei servi appartengono allo statuto della democrazia. Senza un segnale netto di alt a questa deriva, che implica un confronto duro con le attuali classi dirigenti, si rischia l'abdicazione al proprio status di cittadino e un ritorno alla passività del suddito».

Sulla nascita della sociologia

Uno dei problemi che spesso si riscontrano con lo studio della Sociologia al liceo sociopsicopedagogico è che, purtroppo, il programma è "sfasato" rispetto a quello di storia e uno studente di terza si trova spesso in difficoltà quando sente parlare delle grandi trasformazioni avvenute nel secolo XVIII. La tentazione è quella di non complicarsi troppo la vita e quindi di ignorare una delle questioni centrali della sociologia, ovvero: perché c'è questa scienza? e a che serve? Molti di voi se lo saranno chiesto (e forse si saranno dati la tipica risposta studentesca: perché ce la fanno studiare). Credo però sia molto importante rispondere a questa domanda e non lasciare spazio a dubbi demotivanti. Studiare la società in modo rigoroso, scientifico, significa vedere quello che gli altri non vedono, non diversamente dallo studio dei neutrini, dei bosoni e dei quark.
Ricorderete, ne avevamo parlato un po' in classe, nelle prime lezioni, con riferimento ad Adam Smith e al rivoluzionario concetto di "società civile" - per la verità introdotto non proprio da Adam Smith ma da Adam Ferguson, un altro importante illuminista scozzese della metà del Settecento, autore del famoso Saggio sulla storia della società civile (1767).
La questione, comunque, è presente in molti studi introduttivi alla sociologia. Uno dei più importanti sociologi italiani, Franco Ferrarotti, la formula così:

La sociologia è... scienza in senso pieno. Ma perché questa scienza sorge e si afferma storicamente in concomitanza con la società industriale, vale a dire verso la metà del XVIII secolo?.

La risposta è che una scienza non è altro che un'impresa umana che cerca di dare una risposta precisa, rigorosa, a determinati bisogni umani. Si tratta allora di comprendere a quali bisogni umani rispondeva la "scienza della società", la sociologia.
Quello che bisogna aver chiaro è che la società moderna, nata dalle rivoluzioni politiche (americana e francese) di fine '700 e da una gigantesca ristrutturazione del modo di produzione (Marx docet), la rivoluzione industriale, è una società che non può più fare affidamento sulla tradizione come criterio di comprensione di quello che essa fa. E' una società borghese, produttiva, basata sul fare e sull'iniziativa individuale, che ha bisogno di comprendersi in modo radicalmente diverso da come si comprendevano le società basate su un modo di produzione pre-industriale, legittimate dall'autorità (Luigi XIV: "lo Stato sono io") e dalla tradizione.
L'illuminismo prima e il positivismo poi spingono la società sulla strada della razionalizzazione, nel senso che si ritiene che solo la scienza possa dare risposte legittime ai bisogni umani (Comte docet). E quindi, così come c'è una scienza della natura (fisica, chimica, biologia...) che spiega le leggi dei fenomeni naturali, ci dovrà essere una scienza della società che spiega le leggi dei fenomeni legati alla vita dell'uomo in società (Durkheim: i fatti sociali). Una società tradizionale, basata ad es. su credenze religiose, rifiuterebbe una "scienza della società" perché in queste società non è possibile indagare razionalmente, e quindi mettere in questione, le credenze religiose, i comportamenti e le questioni morali (il giusto, il bene, ecc.).
C'è anche da considerare un'altra cosa, che emerge molto chiaramente soprattutto con Tocqueville: la sociologia nasce quando si costituiscono movimenti, gruppi, associazioni, istituzioni e organizzazioni che non possono essere ricondotti alla sfera politica, alla sfera statale. Pensiamo agli industriali (vedi Saint-Simon), ai sindacati, al movimento degli operai, degli studenti, delle donne, ai giornali e all'opinione pubblica in generale: essi non sono riconducibili allo stato. Sono società civile, sono cioè autonomi rispetto a quella cosa che chiamiamo stato.
Ecco allora che si capisce perché nasce la sociologia: tutti questi movimenti, gruppi, istituzioni ecc. sono un oggetto autonomo di indagine e, come scrive ancora Ferrarotti, una scienza nasce quando ha un oggetto autonomo di indagine, quando cioè si vede con chiarezza che esiste una sfera autonoma della società rispetto allo stato. In una società feudale, scrive Ferrarotti,

in cui accanto al nobile c'è soltanto il contadino che, per la sua psicologia, per la funzione monotona, individuale, priva di rapporti che svolge, non è né organizzato né organizzabile in una classe, non c'è società civile, Questa nasce allorché nascono le classi in senso moderno, cioè le classi cittadine, organizzate, autoconsapevoli, perché ciascun individuo avverte quotidianamente i sentimenti e gli interessi che lo legano ad altri individui e la necessità di un'azione comune per i raggiungimento di fini comuni. Col nascere della classe sociale in senso moderno nasce dunque la società civile e con essa anche la rottura delle forme tradizionali religiose o naturalistiche di studio dell'uomo e della società e la nuova impostazioni di tali ricerche sul piano strettamente empirico. Nasce così la sociologia e nasce ponendosi come primo problema quello che la consapevolezza delle nuove classi le poneva come più pressante: il problema dell'ineguaglianza umana.

I brani che ho citato sono tratti da Che cos'è la società? di Franco Ferrarotti (Carocci 2003).